La preghiera in terra dell’islam tiene uniti

I musulmani mi dicevano che l’uomo non può vivere senza Dio, che la preghiera è la cosa più bella della vita. Il venerdì, alla voce del muezzin il quartiere si fermava all’improvviso, tutti si mettevano in ginocchio. «Cosa faccio qui?», mi chiedevo ed ero spinto ad approfondire il mio essere cristiano, a rendermi conto di ciò che ci unisce anche se resta velato, prudente, in attesa.

Certo ognuno fa la sua preghiera. E se ci fosse anche un’unica preghiera? Comunque, quando si prega l’uno accanto all’altro, significa che si è sulla stessa direzione: avvicinarsi a Dio e Dio ci avvicina. Si accetta di lasciarsi condurre… e Dio lo sa fare.

Ecco due preghiere e per ciascuna un suggerimento di Christian de Chergé, monaco ucciso di Tibherine.

La prima è quella recitata al Cairo da musulmani e cristiani della Fraternità religiosa al termine delle loro riunioni.

Dio, a te ci rivolgiamo, in te poniamo la nostra fiducia, a te chiediamo aiuto e supplichiamo di accordarci la forza della fede in te e la buona condotta attraverso la direzione dei tuoi Profeti e Inviati. Ti chiediamo di rendere ciascuno di noi fedele alla sua credenza e alla sua religione, senza chiusura che fa torto a noi stessi e senza fanatismo che fa torto ai nostri fratelli di fede.

Ti imploriamo di benedire la nostra fraternità religiosa e di fare che la sincerità sia la guida che ci conduce, la giustizia, fine della nostra ricerca e la pace, il bene che vi troviamo. O Vivente, O Eterno, O Tu, a chi sono la Gloria e l’Onore. Amen

Suggerimento di Christian: «È importante lasciarmi trasportare il più avanti possibile nella preghiera dell’altro se voglio essere un cristiano vicino a un musulmano. La mia vocazione è di unirmi a Cristo attraverso il quale monta ogni preghiera e che offre al Padre misteriosamente questa preghiera dell’Islam come quella di ogni cuore giusto».

La seconda è la preghiera di Giovanni Paolo II pronunciata a Casablanca (Marocco, 1985) e in Senegal (1992) davanti ai musulmani.

O Dio, tu sei il nostro Creatore. Tu sei buono e la tua misericordia è senza limiti. A te la lode di ogni creatura. O Dio, tu hai dato a noi uomini una legge interiore con la quale noi dobbiamo vivere.

Fare la tua volontà è nostro dovere. Seguire le tue vie è conoscere la pace dell’anima. Guidaci in tutti i sentieri che percorriamo. Liberaci dalle cattive decisioni che allontanano il cuore dal tuo volere. Non permettere che invocando il tuo nome giungiamo a giustificare i disordini umani. O Dio, tu sei l’Unico, a Te la nostra adorazione. O Dio, giudice di tutti gli uomini, aiutaci a far parte dei tuoi eletti nell’ultimo giorno. O Dio autore della giustizia e della pace, accordaci la gioia vera e l’amore autentico e una fraternità durevole tra i popoli. Riempici dei tuoi doni infiniti. Amen.

Suggerimento di Christian: «Questa preghiera di Giovanni Paolo II rende concreto l’esercizio del suo servizio apostolico che è di convocare all’incontro con Dio tutti gli uomini e di confermare i suoi fratelli nella fede viva abbeverandoli alla sorgente dello Spirito che prega e geme nel cuore di ciascuno. Ministero di Eucaristia in atto, in cui il pastore riunisce i figli di Dio dispersi, suoi fratelli, per farne membri di un Corpo vivo entrando in sacrificio di lode… per la più grande gloria di Dio».

 

 

 

 

 

 

Il saluto è una porta e una benedizione

Qui in Italia saluto le persone del quartiere dove abito e che incontro per strada. Alcuni rispondono, soprattutto i bambini.

In Camerun, il saluto era la cosa che mi ha sempre interessato e che poi vivevo. All’inizio mi faceva ridere perché era una serie di domande: «Bene, la tua casa va bene? I tuoi figli stanno bene? Tua moglie va bene? Ecc., ecc». Finalmente dopo mesi, avevano cambiato. Al posto della moglie mi chiedevano: «La tua auto va bene?».

Ma ho presto capito che il saluto era un momento importante perché faceva sentire l’umore della persona che incontravo, preparava al dialogo e a stare bene insieme.

Poi in Algeria, anche coi miei amici musulmani, il saluto mi ha aperto a una relazione ogni giorno più vasta e profonda. Fin dai primi giorni ho salutato tutti. Non però le donne, come mi era stato subito consigliato. Ma poi un po’ alla volta c’è stato un progresso di conoscenza reciproca e per strada, anche qualche ragazza e qualche donna osava salutarmi. Erano le ragazze che venivano a fare i compiti da me e le mamme che le accompagnavano. Quando sei salutato, e con un bel sorriso, ti senti accolto, vicino.

Dal saluto cosiddetto laico: «Sbah kair» (mattino di luce), giunsi presto al vero saluto dei musulmani, religioso, «Salam aleikum» (pace a voi), perché loro stessi ormai conoscendomi mi volevano salutare così. Il saluto è anche accompagnato da qualche gesto, come quello di mettere la destra sul cuore per dire: «Ti porto nel cuore».
Il significato della parola “Salaam”, che alla lettera vuol dire “pace”, si spinge un po’ oltre, delineandosi come “salvaguardia” , “sicurezza” , e “protezione” dal male e dagli errori. Il nome di “Al-Salaam” è anche uno dei Nomi di Allah. Pertanto, il saluto della “Salaam”, suona come un “possa la Benedizione del Suo Nome scendere sopra di voi”.

Alla domanda: «Quale categoria di azioni dell’islam sono meritevoli?». Il Profeta rispose: «Dare sostentamento (cibo) agli altri e offrire il saluto della “Salaam” a coloro che conosci e a coloro che non conosci. Se entrando in un negozio, saluti con un bel sorriso, fai una sadaka, un’elemosina, un dono».

Il saggio Al-Qaadi ‘Ayaad ha detto: «Il saluto “Salaam” è il primo livello di rettitudine e la prima qualità di fratellanza, ed esso è la chiave per generare l’amore. Attraverso la pratica del saluto “Salaam”, l’amore dei musulmani, l’un per l’altro, cresce più forte ed essi dimostrano i propri simboli distintivi e diffondono un sentimento di sicurezza tra loro stessi».  Dire «Salaam ‘aleykum» (sia la pace con te) è meritare dieci ricompense.  Dire: «Salam ‘aleikum wa rahmat-Allah» (Sia la pace su di voi e la Misericordia di Allah) è meritare venti ricompense.  Dire: «Salam ‘aleykum wa rahmat-Allah wa barakatuhu» (Sia la pace su di voi e la Misericordia di Allah e le Sue Benedizioni) è meritare trenta ricompense.

Mentre giorni fa ero a Treviso in autobus, mi capitò di sentire un giovane che telefonava in arabo, seduto vicino a me. Al termine della telefonata gli dissi: «Salam aleykum». Quegli mi sorrise, un po’ sorpreso, e rispose: «Aleykum salam». E continuammo a parlare, in italiano per fortuna. Il saluto è anche una porta che ci fa dire: «Marhaba bika», benvenuto, la casa è aperta per te.

Ora… dico a voi: «Salam ‘aleykum!».

 

Quando è giorno

Ho ritrovato una “cartolina” scritta dal deserto nei miei dieci anni d’Algeria. La “ripulisco”, aggiorno, rigusto… e accetto di ridarvela perché non devo ritenere solo per me l’esperienza vissuta.

Diceva un saggio africano: «Passerai dalla notte al giorno, non quando nella penombra riuscirai a distinguere un cane da una pecora o un tipo di palma da un altro tipo di palma, ma quando in ogni persona che incontrerai, vedrai un fratello. Allora non è più notte…è giorno!».

La notte è solitudine, minaccia, paura. Il mondo è buio.

«La notte è tanto brutta», diceva ogni mattina mio padre, venendo dal carcere dove prestava servizio come “agente di custodia”.

Il giorno è sole… colore, calore, luce, vita, gioia…

Dieci anni a Touggourt vivendo con musulmani.

È bello al mattino, andando a celebrare la messa con le Piccole Sorelle di Gesù, poter incontrare quelli che escono da casa per andare al lavoro e salutarci col saluto più bello: «Salaam aleikum» (la pace sia con te). E mettendo sempre la mano sul cuore. Perché è lì che ci si sente uniti.

È bello parlare col poliziotto dei suoi bambini, vederlo sorridere e sentire che è contento di te; incontrare il marito abbandonato e dargli un po’ del tuo tempo;

parlare un po’ con l’Imam della moschea e dirci che ci si sente vicini nella preghiera; ascoltare il medico musulmano che ti dice: «Sento nel cuore un invito a cercare… a trovare»; ringraziare il dentista che dice: «A persone come voi, non ho chiesto mai niente»; vedere la gioia del tecnico straniero del petrolio che dopo la mMessa in una base, nel deserto, decide di cambiare, di amare meglio sua moglie…

Cose semplici che allargano il cuore. Allora ogni giorno è un giorno nuovo.

Il breviario francese mi dice qual è il vero giorno: «Il nuovo giorno si alza, il giorno conosciuto da te, Padre.  Che tuo Figlio completi nell’uomo la vittoria della croce».

E mi offre queste preghiere: «Al mattino di questo nuovo giorno, tu Gesù, stella del mattino, risveglia in me il senso della bontà del tuo operato.  Luce che si alza sul mondo, mostraci le tue volontà.  Figlio amato dal Padre, ispiraci l’amore filiale e fraterno. Sorgente gorgogliante di vita, feconda il lavoro di questa giornata.

Amico dei poveri e dei piccoli, rendici attenti alla loro domanda».

 

Pensiero sui migranti

Cerco testimonianze di come ci comportiamo con i migranti. Una signora praticante in una parrocchia mi ha mandato la sua.

«Ci sono tante storie di vita vissuta con tante sofferenze che non conosciamo e a volte neppure immaginiamo. Ci sono tante persone che hanno sofferto, che soffrono, ma che avrebbero tanto da donarci sia a livello umano che culturale e spirituale. Per questo sento di dovermi attivare, per quel che mi è possibile, per andare incontro alle persone in difficoltà. Penso che ognuno di noi sia un dono per l’altro, con le sue caratteristiche, i suoi doni, la sua cultura, compresi i cosiddetti migranti che dovremmo imparare ad accogliere e valorizzare, Perché questo può trasformarsi in una nuova occasione per ri-conoscerci e scambiarci reciprocamente il dono della propria cultura umana e spirituale. È nelle differenze ch’è possibile comprendere e apprezzare l ‘altro’, con la sua cultura e le sue ricchezze nella fiducia reciproca.

Proprio nello spirito dell’Universalità della Chiesa e come Cristiani, dovemmo avere un cuore più sensibile verso i migranti ed essere quotidianamente testimoni di questa universalità, cominciando proprio nelle nostre comunità, nelle parrocchie, città.

Certamente può sembrarci difficile perché gli immigrati ci appaiono diversi da noi e quindi a volte istintivamente e per paura, inconsciamente o no, ci chiudiamo. Altre volte invece possiamo sentirci infastiditi perché ci chiedono l’elemosina, ma sento che, come per ognuno di noi, dietro ad ognuno c’è una storia, di dolore o difficoltà, di famiglia, di distacco, di sacrifici, di sogni, di speranze, proprio come me. E quindi mi fermo un istante e mi domando: perché aver paura? Perché non fermarmi e interessarmi a lui o lei, cime fare con qualsiasi persona in di difficoltà? Non ho una risposta ma sento che forse, se ci fossero le condizioni di maggiore integrazione o coinvolgimento all’interno delle nostre comunità parrocchiali, tutto sarebbe più semplice e impareremmo ad aver meno paura, più rispetto e ad apprezzare una cultura diversa e nel confronto, riscoprire anche la nostra. Mi vengono in mente gli Africani; quanta gioia quando si riuniscono per la messa, dove si percepisce questo profondo senso di famiglia e gioia celebrate con suoni, canti e danze.

In questa conoscenza reciproca dovrebbero essere coinvolti i nostri giovani che con il loro spirito ’sconfinato’ con cui si spostano da uno stato all’altro nessuna preoccupazione, per studio, per lavoro e altro, non hanno ancora quelle ‘barrire mentali’ che spesso appartengono ai più adulti.

Questa riflessione mi porta a esprimere il mio sogno di un mondo senza nessuna barriera, dove tutti siamo uguali nella propria unicità, dove non esistono razze e colore della pelle, ma semplicemente una realtà di fiducia reciproca e speranza nella grande famiglia umana e nella fratellanza universale».

E voi come la pensate?

 

Papa Francesco dona ai preti di Roma un libro di René Voillaume, l’erede di De Foucauld

Leggo nell’OSSERVATORE ROMANO del 06/04/2023:

Stamane, Giovedì Santo, alla Messa crismale nella basilica Vaticana hanno concelebrato con lui quasi duemila presbiteri, ai quali ha donato un libro di René Voillaume — un “classico” lo ha definito due volte invitando a leggerlo — intitolato La seconda chiamata. Tratta il tema, approfondito anche dal Pontefice nell’omelia, della «crisi, che ha varie forme» ma che «a tutti succede» dopo l’entusiasmo degli inizi, nella quale si sperimentano «delusioni, con l’ideale che sembra usurarsi fra le esigenze del reale». Ed è qui, ha chiarito il vescovo di Roma, che si «insinuano tre tentazioni pericolose: quella del compromesso, per cui ci si accontenta; quella dei surrogati, per cui si tenta di “ricaricarsi” con altro; quella dello scoraggiamento – la più comune -, per cui, scontenti, si va avanti per inerzia».

René Voillaume, l’erede spirituale di San Carlo de Foucauld, in nome del quale ha fondato quella congregazione, chiamata dei Piccoli fratelli di Gesù che l’eremita aveva invano sognato di fondare, indicandone anche il nome: Piccoli fratelli del Sacro Cuore di Gesù, dei quali Voillaume è stato superiore fino al 1965, cioè prima e dopo il Concilio Vaticano II. Il Papa lo ha ricordato donando ai sacerdoti della sua diocesi un volume “La seconda chiamata” che Voillaume ha firmato inserendovi tra l’altro anche contributi del card. Carlo Maria Martini e del vescovo di Novara Renato Corti.

Papa Francesco ha detto ai sacerdoti: «Profeti dell’unzione dello Spirito Santo e apostoli di armonia: «nel giorno nativo del sacerdozio». Così dovrebbero essere i preti nonostante le umane «debolezze, le fatiche, le povertà interiori».

 

L’Italia sempre più “terra di missione”

«L’Italia è ancora una terra di missionari, ma è sempre più una terra di missione», afferma don Giuseppe Pizzoli, direttore della Fondazione Missio e dell’Ufficio nazionale per la cooperazione missionaria tra le Chiese. Prima di essere chiamato a Roma dalla Cei, è stato missionario nello stato brasiliano di Paraiba e in Guinea Bissau.

«Oggi la missione non è più unidirezionale come in passato: dall’Europa, nel nostro caso dall’Italia, al resto del mondo. Oggi possiamo dire che anche la missione si è “globalizzata”: fino a qualche mese fa vivevo in Guinea Bissau dove condividevo il lavoro missionario con religiosi e religiose provenienti dal Brasile, dal Messico, dal Kenya, dal Senegal, dall’Angola, dal Myanmar e dal Bangladesh. Io credo che la nostra Italia continua ad essere un terreno molto fertile di missionari. È pur vero che le vocazioni religiose, di consacrazione alla missione “ad vitam” soffrono di una profonda crisi, ma dobbiamo dire che la vocazione di laici missionari “ad tempus” ha avuto negli ultimi decenni uno sviluppo notevole e pensiamo che nel futuro prossimo possa avere un ulteriore crescita. Possiamo dunque dire che l’Italia è ancora una terra di missionari! Mi sembra comunque importante aggiungere una ulteriore riflessione: il Concilio Vaticano II ha riaffermato e il Papa Francesco ce lo ricorda continuamente – soprattutto con l’indizione del Mese Missionario Straordinario nell’ottobre prossimo – che la vocazione missionaria è radicata nel Battesimo ed ogni battezzato è per sua natura missionario. Dobbiamo dunque dire che in ogni luogo in cui ci sono delle comunità cristiane, anche se sono una strettissima minoranza, quella è una “terra di missionari”; e in ogni luogo in cui ci sono persone che non conoscono la fede o l’hanno in qualche modo messa da parte o abbandonata, quella è una “terra di missione”. Dobbiamo riconoscere che l’Italia, negli ultimi decenni, è diventata sempre più anche una terra di missione».

(La Stampa, 23 marzo 2018)

I martiri del Pime

Il 24 marzo 2023 ricorre la trentunesima Giornata dei missionari martiri. Dal 1850 a oggi sono 19 i missionari del Pime che hanno conosciuto il martirio.

Nel 1855 in Oceania il beato Giovanni Battista Mazzucconi,

Nel 1900 in Cina durante la rivolta dei Boxer viene ucciso Sant’Alberico Crescitelli. A cavallo tra il 1941 e il 1942, in un contesto storico delicatissimo, sempre in Cina avviene il martirio di padre  Cesare Mencattini, mons. Antonio Barosi, padre Girolamo Lazzaroni, padre Mario Zanardi, padre Bruno Zanella, padre Carlo Osnaghi e padre Emilio Teruzzi.

Tra il 1950 e il 1955 hanno pagato con la vita la loro testimonianza di fede altri cinque missionari del Pime nella turbolenta Birmania (oggi Myanmar): oltre ai beati Mario Vergara e Alfredo Cremonesi, i padri Pietro Galastri, Pietro Manghisi ed Eliodoro Farronato.

Nel 1972 in Bangladesh è stato ucciso padre Angelo Maggioni; nel 1974 a Hong Kong padre Valeriano Fraccaro.

Negli ultimi decenni sono stati uccisi nelle Filippine i padri Tullio Favali (1985), Salvatore Carzedda (1992) e Fausto Tentorio (2011), a conferma che il martirio appartiene alla vicenda missionaria di sempre.
Queste tre ultime uccisioni rispecchiano lo stile di presenza del Pime nel Paese e le modalità di testimonianza missionaria adottata, ieri come oggi: la denuncia dei soprusi dei potenti, la volontà di stabilire un dialogo costante fra cristiani e musulmani e, infine, la lotta in favore dei tribali e dei loro diritti.

Alla morte dei cinque missionari uccisi in Cina nel 1941/42, monsignor Balconi, superiore generale del Pime, scriveva ai membri dell’Istituto: «L’assassinio dei cinque confratelli non solo non ha disanimato nessuno, ma ha rinfrancato chi combatte sul campo, ha entusiasmato chi sospira di raggiungerli, ed ha sollevato un’ondata di fervida simpatia per l’Istituto e le sue missioni, per voi, confratelli carissimi, riguardati come i veri discepoli di Cristo, pronti a dargli anche la massima testimonianza d’amore: il sacrificio della vita. E già questo non sarebbe poco: rinnovarci tutti nel vero spirito missionario».

 

In ginocchio davanti alle bare

Antonio Maria Mira giovedì 2 marzo 2023 scrive su “Avvenire”. «I sindaci crotonesi si sono inginocchiati in preghiera accanto all’arcivescovo Raffaele Panzetta e all’imam Mustafa Achik davanti alle piccole bare bianche nella camera ardente nel palazzetto dello sport Palamilone che ospita le salme degli immigrati. Ringraziano il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella per la sua visita…che ha dato di nuovo dignità al nostro paese».

Tralasciando altri articoli sull’assenza o sul mal comportamento di qualcuno, o che pongono la domanda se si poteva evitare il naufragio, nel giornale ho trovato anche una pagina di Roberto Zanini che nel prezioso libro del gesuita spagnolo Javier Melloni  Il Cristo interiore, trova l’aiuto a capire il senso di mettersi un ginocchio davanti alle bare bianche.

«“Adamo dove sei?” (Gen 2,9). La prima domanda di Dio all’uomo. Una domanda profonda, esistenziale, che paradossalmente rimane senza risposta (…) Ieri come oggi, però, per la maggior parte di noi sembra restare senza risposta: sappiamo davvero dove siamo? Qual è il nostro modo di stare nel mondo e quale il compito nel succedersi delle cose e degli eventi che sono nella nostra vita? Con Gesù, però, le cose cambiano. I discepoli chiedono: “Maestro dove abiti?»” (Gv 1,39), dove stai? Qual è la tua vita, la tua verità nel mondo? (…)

Melloni, attraverso le azioni concrete del Cristo dei Vangeli, prende per mano il lettore e lo aiuta a immergersi nella propria interiorità attraverso quella di Gesù e quindi aprirsi all’azione dello Spirito che illumina. «“La vostra vita è nascosta con Cristo in Dio” – sottolinea citando Col 3,3 -. Lui è noi in pienezza e noi siamo Lui in gestazione fino a che non raggiungiamo l’Essere totale, quando “Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15,28)». Perché «il Cristo nascente dimora in ogni interiorità umana e ci sono semi di divinità ovunque. Gesù di Nazaret è venuto a svegliarci e da allora sta albeggiando, nonostante in nostro intorpidimento».

 

 

Più responsabilità ai laici

Dal 16 al 18 febbraio, nell’aula nuova del Sinodo, in Vaticano, c’è la presenza di 210 tra presidenti e referenti delle Commissioni episcopali per i laici provenienti da tutto il mondo. È il convegno internazionale di tre giorni “Pastori e fedeli laici chiamati a camminare insieme”. Si chiuderà con l’intervento del Papa. Così il Card. Kevin Farrell pensa il convegno: «Tutti i membri del popolo di Dio, pastori e fedeli laici, condividono a pieno titolo la responsabilità per la vita, la missione, la cura, la gestione e la crescita di questo popolo che Cristo stesso ha suscitato».  «Si sente il bisogno di superare la semplice logica di “sostituzione”, secondo cui per migliorare la situazione della Chiesa, basterebbe semplicemente “sostituire” i chierici con i laici in vari ambiti… e così ogni problema sarebbe risolto». «Serve innanzitutto una “conversione pastorale” da parte dei laici e di coloro che sono ministri ordinati…. Non bisogna ridurre la missione dei laici nella Chiesa a un ruolo o a un coinvolgimento puramente funzionale, ma devono essere veramente parte della missione della Chiesa».

Pensando ai catechisti, sogno che sia conferito loro un “ordine minore” non per una “stelletta” in più, distintiva, ma per un senso di responsabilità, ricevuta come dono di Dio per loro e per la comunità a cui sono inviati. Ho avuto l’incarico e la gioia di formare catechisti nel sud e nel nord del Camerun e in Ciad. Era una scuola seria di famiglie che dedicavano tre anni di formazione alla vita familiare, formazione al lavoro e alla fede. Formazione attenta alla cultura e al contesto dal quale provenivano. Per diventare responsabili e punti di riferimento, animatori della catechesi e della liturgia anche quando il prete poteva arrivare qualche volta l’anno, educatori secondo il Vangelo nelle comunità di appartenenza e per le persone a loro affidate.

Per avere laici impegnati, bisogna dedicarci un po’ di più e tutti insieme ad aiutarli e a pregare per loro.

Sud Sudan. I piccoli sfollati al Papa: vogliamo la pace per poter tornare a casa

Bambini e giovani di altrettanti campi interni hanno raccontato le loro storie a Francesco nel secondo giorno del suo viaggio apostolico in Sud Sudan. Parole di gratitudine e speranza, che non nascondono le numerose difficoltà che loro, come migliaia di altri coetanei, vivono quotidianamente: mancanza di spazio, carenza di istruzione, solitudine, sogni di un futuro migliore

(Andrea De Angelis – Città del Vaticano): Johnson non ha abbastanza spazio per giocare a calcio, ma neanche una scuola. Il suo indirizzo è B2, rispettivamente il blocco e il settore del sito per la protezione di civili in cui vive. Joseph ha 16 anni, otto dei quali trascorsi nel campo. “Se ci fosse stata la pace – dice a fatica, emozionato e commosso – mi sarei goduto l’infanzia”. Rebecca, come gli altri, è “molto felice” di avere davanti a sé il Papa, qui “nonostante il suo ginocchio dolorante”. Gratitudine, speranza, dolore, preghiera. Questo e molto altro esprimono le voci dei giovani che il Papa ha incontrato al campo sfollati interni di Giuba, le cui testimonianze hanno preceduto il suo intervento.

Siamo qui grazie agli aiuti umanitari

Sedici anni all’anagrafe, la metà dei quali trascorsi nel campo della città di Bentiu. La storia di Joseph è quella di un ragazzo chiamato a crescere troppo presto e oggi consapevole del dramma che sta vivendo. Il suo pensiero è per il futuro, personale sì, “ma anche degli altri bambini”, perché chi ha conosciuto la fame, la paura di morire desidera che simili pagine non si scrivano più. “Perché soffriamo nel campo per gli sfollati? A causa – dice – dei conflitti in corso nel nostro Paese”. La sua analisi è lucida, sa bene che la sopravvivenza non era scontata. “Io, i miei genitori, insieme ad altre famiglie, siamo qui grazie agli aiuti umanitari”, ma “se ci fosse stata la pace sarei rimasto nella mia casa d’origine”. Joseph chiede ai leader religiosi di continuare a pregare per “una pace definitiva”, infine lancia un accorato appello ai leader del suo Paese: “Portino amore, pace, unità e prosperità”.