Riconosciute le virtù eroiche di Baba Simon

È giunto il giorno di vedere Baba Simon riconosciuto come il primo santo missionario camerunese. Sabato 20 maggio 2023, il Santo Padre Francesco ha autorizzato a promulgare il Decreto riguardante le virtù eroiche del Servo di Dio Simon Mpeke (detto Baba Simon), sacerdote diocesano, nato intorno al 1906 a Batombé (Camerun) e morto il 13 agosto 1975 a Édéa (Camerun);

L’avevo incontrato più volte a Tokombere vicino ai Piccoli Fratelli del Vangelo di Mayo Uldeme, L’ho visto sempre a piedi nudi e con la povera sottana, in dialogo con tutti. Vivendo la missione, poco lontano da lui, lo sentivo testimone di Gesù ed esempio di missionario povero tra i poveri. Ora per conoscere la sua persona e la sua vita consiglio di leggere Baba Simon, le père des Kirdis Editions du Cerf, paris 1988. “Lo chiamavano Baba Simon” di Grégoire Cador,

La vita di Simon Mpeke, tutta donata alla gente di varie lingue, culture e religioni. Mi soffermo a ricordare i primi passi di una chiesa africana che diventa missionaria.

Simon, nato nella famiglia Adié, era entrato nel 1924 nel piccolo séminario di Mvolyé, a Yaoundé. Fa parte dei primi otto preti camerunesi ed è ordinato nel 1935. Prima vicario in diverse missioni cattoliche della regione della Sanaga Maritime, diventa parroco della parrocchia di New-Bell à Douala, praticamente creata da lui. Lascia Douala per il Nord nel 1959 e si stabilisce a Tokombéré, fino alla sua morte. Primo prete africano ad arrivare in quella regione e a rispondere alla chiamata missionaria che lo spingeva tra popolazioni non evangelizzate del Nord che avevano sempre rifiutato la dominazione musulmana.

Nel febbraio 1951 suor Magdaleina Hutin, fondatrice delle Piccole Sorelle di Gesù, arriva a Duala (Camerun) e su invito di mons. Bonneau, si reca a New-Bell, dove rimane colpita dal fervore che vi regna. Mons. Bonneau era molto aperto nei confronti della nuova forma di presenza al mondo proposta dai Piccoli Fratelli e dalle Piccole Sorelle di Gesù. Accoglie i Fratelli e li pone nel quartiere di New-Bell in mezzo ai malati di lebbra. Simon sarà il confessore di questa fraternità.

Nel 1953, durante un viaggio in Camerun, padre Voillaume, vero “fondatore” della corrente di spiritualità foucaultiana, viene a Duala. Così annota nel suo diario: “Ho visto a lungo don Simon, parroco di New-Bell, e ho pranzato con loro in parrocchia. Credo che l’istituto secolare vada seriamente inserito nel clero camerunese… Sono sicuro che quest’anno lascerà molto il segno nello sviluppo del postulato e nell’inizio dell’istituto secolare tra i camerunesi”.

Nel frattempo, Guy Riobé, segretario dell’Unione sacerdotale dei Fratelli di Gesù, commentando l’enciclica Fidei Donum, da poco pubblicata, così dichiara: “Bisognerebbe che l’unione e ciascuno di noi, si mettesse in totale disponibilità e in generosa apertura a tutto ciò che Gesù ci chiederà per renderci sempre più presenti di spirito, di cuore e d’anima all’Africa intera”. Mons. Plumey vescovo O.M.I. grande missionario nel Nord Camerun, sempre più ardentemente desidera l’installazione di un ramo attivo della fraternità dei Fratelli di Gesù a Mayo-Ouldeme, incalza mons. Mongo per ottenere dei preti camerunesi dell’Unione. Durante questo periodo, Simon ritorna da mons. Mongo che gli dichiara: “Tu mi domandi di andare nel Nord del Camerun? Non ti permetto di andare, amico mio: sono io che ti invio, perché penso che il cristianesimo in Camerun non sarà solido fin quando non poggerà su due piedi: il Sud e il Nord. Ti aiuterò come posso”. Superata la soglia dei 50 anni, una nuova fase si apre per questo cercatore di Dio. È parroco influente della più grande parrocchia di Duala. Vedendolo partire i suoi amici lo prendono per pazzo. Mons. Mongo, commentando l’avvenimento, dirà: “Sarà la nostra risposta personale alla ‘fidei donum’, sperando che la Francia venga in nostro soccorso, rispondendo all’appello di Pio XII”. Simon scrive ai fratelli dell’Unione: “Resterò membro dell’Unione in mezzo ai Kirdi”. Meglio comunque chiamarli “pagani” o “non iniziati”… Su 1,5 milioni di abitanti del Nord-Camerun, un milione circa è Kirdi, cacciati dalle loro terre e dalle loro coltivazioni – in seguito al loro rifiuto di sottoporsi ai mussulmani – e costretti poi a stabilirsi su montagne dal suolo molto duro e poco adatto alla coltivazione. Nel 1958 p. Voillaume, di passaggio a Mayo-Ouldeme, si rallegra di una svolta imminente: il suo pensiero va, infatti, all’arrivo di don Simon Mpeke che si sarebbe affiancato ai Piccoli Fratelli del Vangelo. Aggiunge: “Spero che possa abituarsi e comprendere bene queste popolazioni talmente diverse da quelle del Sud”.

Aveva capito i kirdi

Appoggiato sulla certezza che l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio, Baba Simon pensò che fosse urgente dare ai Kirdi gli strumenti per liberarsi da ogni schiavitù. Liberare i Kirdi delle montagne voleva dire insegnare a uscire dalle loro proprie miserie e accedere alla vita cristiana. A lui competeva dare gli strumenti e chiamare. «Il resto – diceva – ciò che è principale, e cioè la conversione, appartiene a Dio. Il nostro ruolo si riduce a quello di seminatore. Dobbiamo lavorare senza preoccuparci del risultato; il battesimo dipende da una decisione personale per la quale ognuno si impegna sul cammino di una vita nuova. Il fine rimane Dio, il fine non siamo noi. E Dio si incontra nella libertà”.  Per lungo tempo il governo coloniale aveva provato a far scendere i Kirdi dalle montagne e a scolarizzare la popolazione, ma tutti gli sforzi incontrarono sempre una tenace opposizione. L’uomo delle montagne resistette a ogni tentativo che era visto come un’aggressione culturale che non teneva conto dell’identità del popolo. Anche Baba Simon insistette sull’importanza della scuola. Egli capì però, dopo i primi fallimenti, che si trattava di conquistare innanzitutto la fiducia dei Kirdi. Questa è possibile nella conoscenza reciproca, nella presenza continua in mezzo al popolo, laddove esso vive, soffre, ama, lavora, prega. Da qui nacque quella che fu chiamata «la scuola sotto l’albero». Una scuola sotto gli occhi di tutti, nel cuore della vita dei Kirdi.

Lo spirito non muore

Un giorno del 1976, mi sono fermata a casa del vecchio Digdan. Digdan è un pensatore… Insieme ci raccontiamo i ricordi. E arriviamo alla grande disgrazia di tutte le montagne: la morte di Baba Simon. Gli offro la foto-ricordo… Con mia sorpresa la prende con due mani e dice: «Oussé, (“grazie”) Baba, Baba Simon, oussé, oussé!»; gli sorride, scuote la testa, parla rapidamente come in conversazione… Una delle sue donne si avvicina; do anche a lei la foto. La prende in mano e con fervore anche lei dice: «Oussé, Baba Simon» per una decina di volte. Mi azzardo a pensare ad alta voce: «Ed ora dov’è Baba Simon?». Il vecchio Digdan riflette silenzioso e poi: «Ci sono due cose: il corpo di Baba Simon è come il miglio che resta per terra, come l’erba non raccolta, come un albero che cade. Tutto questo diventa terra. Baba diventa terra. E poi c’è lo spirito e lo spirito se ne va a Jigla (Dio) e vive». «Com’è lassù, presso Dio? Jigla nessuno lo conosce, nessuno l’ha visto, nessuno può dire com’è la casa di Dio. Chi dice: “io so!”, è un menzognero… Io ascoltavo in silenzio. «La vita continua: io, Digdan, quando morirò, ho dei figli che hanno dei figli, la mia vita continua». «E Baba che non ha figli?». «Baba è il padre del nostro spirito, e lo spirito non muore mai!». (Jeanne Michel)

 

 

Abbondanza della gioia

Il 17 maggio 2023, Papa Francesco parlando di San Francesco Saverio ha detto: «Quali siano i suoi sentimenti lo capiamo dalle sue lettere: “I pericoli e le sofferenze, accolti volontariamente e unicamente per amore e servizio di Dio nostro Signore, sono tesori ricchi di grandi consolazioni spirituali. Qui in pochi anni si potrebbero perdere gli occhi per le troppe lacrime di gioia!”» (20 gennaio 1548). Anche Il Concilio Vaticano Il parlando della spiritualità del missionario, non tralascia un ingrediente tutt’altro che secondario, rappresentato dalla gioia. Dice infatti che «attraverso la virtù e la fortezza chieste a Dio, il missionario potrà conoscere come sia proprio nella lunga prova della tribolazione e della povertà profonda che risiede l’abbondanza della gioia». (Ad Gentes n.125)

Pare che in questo, i precursori del Concilio siano stati i nostri primi missionari, che agli albori dell’Istituto coniarono una frase divenuta celebre: «Qui si studia, si prega, si ride”.”

Non che si ridesse soltanto, ma insieme allo studio e alla preghiera, l’allegria era davvero un piatto essenziale della vita di comunità. Il Beato Giovanni Mazzucconi, nostro primo martire, lo sottolineò in una delle sue puntigliose annotazioni: «In casa non vi era la fame, ma il piatto principale era l’allegria e la contentezza, la quale in realtà è il dono più grande e più ricco che il Signore possa fare agli uomini sulla terra».

Il dono più grande di Dio, che riassume tutti gli altri, è quello della gioia, non solo gioia umana ma quella di Gesù: «La mia gioia è in voi e gioia piena» (Gv 12,44-50). Il missionario vero, questa gioia l’ha sempre avuta, perfino da donare, trasmettere.

Ricordiamo alcuni missionari del Pime

Padre Frascognia. Così scriveva dall’India: «Sono sempre contento, e più vado avanti più lo sono. Sento che il Cuor di Gesù mi vuol bene; non solo, ma alle volte m’inonda con le sue tenerezze. Potrei narrarti una lunga fila di fatti per dimostrarti come Gesù mi è sempre vicino e mi colma di continui favori». L’ideale missionario è quindi una continua rivelazione del Signore Gesù alla mente e al cuore e che diventa il tutto della vita.

Padre Pietro Manghisi, ucciso in Birmania nel 1953: «Nella sua residenza c’era sempre vita e allegria: essa rigurgitava di ragazzetti orfani, o abbandonati o indesiderati dai genitori. Li aveva raccolti, li allevava, li assisteva maternamente, li educava e istruiva. Sarebbero riusciti maestri o catechisti o comunque avrebbero imparato un mestiere e formato la loro famiglia cristiana».

Egli ce li presenta: «Se sono paffutelli e allegri,godo della loro felicità. Ma se li vedo intirizziti dal freddo o stesi sulla stuoia consumati dalla malaria, allora anch’io sto male!».

Beato Clemente Vismara. «Tutto è bello nella vita del missionario, se c’è la fede e l’amore di Dio. Io ne ho passate tante, ma posso dire di non essere mai stato triste».

Padre Antonio Farronato, fratello di padre Eliodoro ucciso in Birmania nel 1955: «Qui a Monglin io vivo senza casa, mi alzo senza sveglia, prego senza chiesa, vado a caccia senza licenza, sto allegro senza teatro, studio lingue senza fine, non ho giorno senza fastidi, invecchio senza accorgermi, e di certo morrò senza rimorsi, “ché cuor contento il Ciel l’aiuta!”. E voi? e voi? Voi non mai, se non verrete presto a farmi compagnia!».

Padre Cesare Mencattini, martire in Cina nell’anno 1941: «Io sono felice di fare il prete zingaro, senza chiesa, senza canonica, senza beneficio, ma… ricco di anime, cariche di stracci, ma rigenerate alla grazia! I miei cristiani sono poveri… ma veramente buoni! Come mi stanno attenti quando parlo loro della bontà di Dio e della vita eterna».

 

 

Cura per i poveri

Papa Francesco il 17 maggio 2023 ha detto che San Francesco Saverio «Ebbe grande cura per i malati, i poveri e i bambini, in quanto non era un missionario “aristocratico”. ma “andava sempre con i più bisognosi”, “andava proprio alle frontiere dell’assistenza dove è cresciuto in grandezza».

Il Concilio Vaticano II ha detto: La presenza dei cristiani nei gruppi umani deve essere animata da quella carità con la quale Dio ci ha amato: egli vuole appunto che anche noi reciprocamente ci amiamo con la stessa carità. Ed effettivamente la carità cristiana si estende a tutti, senza discriminazioni razziali, sociali o religiose, senza prospettive di guadagno o di gratitudine. Come Dio ci ha amato con amore disinteressato, così anche i fedeli con la loro carità debbono preoccuparsi dell’uomo, amandolo con lo stesso moto con cui Dio ha cercato l’uomo. Come, quindi, Cristo percorreva tutte le città e i villaggi, sanando ogni malattia ed infermità come segno dell’avvento del regno di Dio, così anche la Chiesa attraverso i suoi figli si unisce a tutti gli uomini di qualsiasi condizione, ma soprattutto ai poveri ed ai sofferenti, prodigandosi volentieri per loro. Essa, infatti, condivide le loro gioie ed i loro dolori, conosce le aspirazioni e i problemi della vita, soffre con essi nell’angoscia della morte. A quanti cercano la pace, essa desidera rispondere con il dialogo fraterno, portando loro la pace e la luce che vengono dal Vangelo. (Ad Gentes n. 12)

Il Pime continua a mandare i suoi uomini proprio nelle zone nuove e difficili. Lo leggiamo nella Regola n. 74 di padre Giuseppe Marinoni: «L’ Istituto, fin dal principio (1850), mira ad avere missioni proprie, e tra le popolazioni più derelitte e più bar­bare: perciò richiese come grazia dalla S. Sede le Missioni di Oceania».

Don Cagliaroli, segretario del fondatore del Pime Angelo Ramazzotti, vescovo di Pavia e Patriarca di Venezia, conclude così la sua biografia: «Sulla sua bara si videro lagrime, e s’udirono sospiri, massime di poveri che si accoravano su di lui, il quale, come visibile provvidenza, li aveva sovvenuti in tante volte non che di roba e danari, sì anche di parole buone e paterni conforti».

Siamo alla fine del secolo scorso (1900), in un villaggio della diocesi indiana di Hyderabad. Fra i cristiani di p. Ciccolungo vi erano due famiglie di lebbrosi. Egli le assisteva ed aiutava con grande carità. Un giovane pagano, nello stadio ultimo della malattia, venne un giorno a chiedere l’elemosina al Padre. Il suo stato era veramente compassionevole; aveva piaghe alle mani e ai piedi e la faccia era così sformata da sembrare un mostro. Faceva ribrezzo a tutti; anche i poveri lo rifuggivano. Il buon Padre lo accolse con grande carità, lo fece pulire e gli preparò acqua per un bagno. Commosso a tanta carità, il povero lebbroso chiese di farsi cristiano ed il Padre se lo adottò come figlio. Gli procurò una piccola capanna in un villaggio cristiano ad un miglio dalla nostra casa e vi andava ogni giorno a lavarlo, a portargli cibo e ad istruirlo nella Dottrina Cristiana. Una volta, appunto per vincere la naturale riluttanza, egli volle indossare per una notte la veste del lebbroso… Fu appunto il suo amore per i lebbrosi e la santa follia di volerli servire e salvare che aveva messo nel suo cuore la brama di andare a Molokay, isola dei lebbrosi. Il Signore gradì il suo desiderio e lo rimeritò chiamandolo in Cielo.

Molti sono gli esempi di servizio ai poveri dei nostri missionari, probabilmente rimasti anche sconosciuti.  Certo è che la povertà servita e vissuta è stata sempre e dovunque testimonianza significativa e indimenticabile del Vangelo predicato dal missionario.

 

Gioia missionaria degli anni Sessanta

Ecco la testimonianza di una giovane della  Lega missionaria studenti di Treviso.

È difficile oggi ricordare in maniera coerente e seguendo percorsi logici, gli avvenimenti legati alla nascita e allo sviluppo della Lega Missionaria Studenti nel territorio di Treviso.

Appartengono agli anni lontani della nostra adolescenza-giovinezza, e si localizzano proprio a cavallo degli anni Sessanta, periodo di grande fermento sociale, politico, religioso e scolastico soprattutto nell’ambito giovanile, al quale neppure la nostra tranquilla città poté sottrarsi, fino a modificare quasi inconsciamente la propria statica realtà.

I ricordi ci riportano al vecchio Seminario del Pime di Piazza Rinaldi, fucina di vocazioni missionarie in tanti giovani che coltivavano l’ideale di travalicare le frontiere per realizzare l’avventura cristiana in modi “altri”, accanto ai fratelli più lontani, dal mondo normale spesso sconosciuti oppure dimenticati.

Non fu però un missionario ad accendere in noi la curiosità per quel nuovo movimento studentesco, bensì il Direttore Spirituale del collegio Pio X, Don Antonio Marin che parlò con entusiasmo ai nostri genitori della nascita di un gruppo comunitario interessato a sviluppare i problemi del “terzo mondo”.

Così approdammo ad un mondo nuovo nell’ambito ecclesiale che si basava fondamentalmente su un forte vincolo comunitario, LEGA appunto, tra i membri del movimento, con il fine di vivere la MISSIONE offrendo il “senso dell’esistere”, in grande umiltà e rispetto, anche a fratelli di contesti culturali differenti, nella consapevolezza d’essere tutti figli di un unico Padre.

La specificazione “STUDENTI si riferiva alla composizione dei suoi membri, per lo più giovani, tenuti a sviluppare lo studio non per creare un gruppo elitario, ma, al contrario, per approfondire sempre più le tematiche inerenti alle missioni e allo sviluppo dei popoli.

Ancorate ad un’Azione cattolica che dava segni d’immobilismo, nella quale il dialogo generazionale era sconosciuto, le divisioni tra maschi e femmine ancora fortemente consolidate, la formazione spirituale basata più sul timor di Dio che sull’Amore, la scoperta del Movimento Missionario rappresentò per noi un’esplosione di fermenti.

Sperimentammo che il segno giovanile di quei tempi era porsi in maniera differente di fronte all’ “altro”, senza sentirsi i soli depositari della verità, come spesso avveniva nelle parrocchie a quei tempi, perché ogni “altro” era depositario di verità diverse da riconoscere, approfondire e confrontare

Il porsi in atteggiamento nuovo di fronte a tutti favoriva il dialogo, la conoscenza, il rispetto e quindi l’amore scambievole in un clima di fratellanza universale che dava tensioni nuove, e ben più ampie, alla nostra fede vissuta fino a quel momento in maniera individualistica e abbastanza formale.

Così partecipammo ai gruppi che si ritrovavano al Pime, attorno a padre Silvano Zoccarato, per vivere la nuova esperienza, avvertendo quasi inconsciamente che stavamo diventando partecipi di una travolgente trasformazione.

Eravamo uniti da obiettivi comuni e la conoscenza era lo strumento per indagare il mondo ed imparare ad amarlo proprio nelle sue diversità. E nel gruppo non c’erano più separazioni tra maschi e femmine, tra giovanissimi e più grandi, tra studenti e operai, tra benestanti e poveri, insieme eravamo davvero Lega, pur nel rispetto delle caratteristiche individuali.

Paradossalmente l’aconfessionalità del movimento, la sua apertura a tutti in un nuovo, per quei tempi, spirito d’accoglienza, sostenne la crescita spirituale nella ricerca della propria vocazione passando attraverso la riscoperta di Cristo, un modo incisivo di assimilare la Carità, un senso nuovo di Giustizia verso tutti.

E poi si respirava lo Spirito de Concilio come energia vitale che passava attraverso i nostri cuori portandovi la speranza per un mondo più giusto e più buono di cui ciascuno anche nel suo piccolo, diveniva parte operante fondamentale.

“La grazia del rinnovamento non può avere sviluppo alcuno nelle comunità, se ciascuna di esse non allarga la vasta trama della sua carità sino i confini della terra, dimostrando per quelli che sono lontani la stessa sollecitudine che ha per coloro che sono i suoi propri membri.” (I documenti del Concilio- attività Missionaria della Chiesa – X -37 b )

I nostri punti di riferimento diventarono, tra gli altri, Raoul Follerau del quale condividemmo spiritualmente e propagandammo le campagne contro la lebbra, l’Abbè Pierre che nelle battaglie accanto agli chiffoniers incarnava realmente il Cristo degli ultimi, Nelson Mandela che si batteva contro l’apartheid pagando con il carcere il suo ideale di giustizia e libertà, e, più vicino a noi, Marcello Candia che, abbandonata un’intensa attività industriale ed una vita di benessere, proprio in quegli anni maturò la decisione di farsi missionario laico e si recò a Macapà dove, accanto a Monsignor Pirovano, pose le basi per la costruzione di un grande ospedale.

Nel corso di quegli anni promuovemmo mostre fotografiche itineranti sui problemi della lebbra o della Fame nel mondo e incontri con relatori d’ altri continenti per conoscere i loro paesi dall’interno e dibatterne le problematiche.

Ricordiamo ancora come avvenimento eccezionale nella nostra vita la partecipazione alla Settimana di Studi di Missionologia presso L’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano, alla quale fummo invitate a intervenire per alcuni anni, nel mese di settembre.

Monsignor Squizzato, responsabile del Settore Missionario in Diocesi, contribuiva a finanziare i nostri viaggi e il mondo che si apriva ai nostri occhi, finora limitato ad una visione provincialissima, non aveva più confini.

I relatori che si susseguivano al Convegno erano quanto di più autorevole ci potesse essere allora nella cultura missionaria in Italia e nel mondo: Arcivescovi e politici, giornalisti e presidenti, mediatori interculturali e missionari, e la loro parola diveniva geografia, cultura, conflitto, denuncia, poesia, arte.

E negli intervalli, correvamo a vedere i tesori del Museo Missionario del Pime provenienti da tutto il mondo, oppure la sera, piene d’ emozione, ci dirigevamo all’incontro con l’Abbé Pierre, nostro profeta, in sette su una cinquecento scappottata, all’Auditorio di via Mosé Bianchi, tra migliaia di giovani commossi ed esaltati pronti a bere la linfa vitale delle sue parole.

Tutto questo avveniva quando di sera i giovani, non più in maniera settaria ma integrati trasversalmente, cominciavano a fermarsi a discutere nelle piazze delle città parlando di politica e di fede, scambiandosi dischi e libri, organizzando dibattiti pubblici e cineforum, respirando forse per la prima volta la sensazione di essere parte integrante in una società diversa, che stava sempre più allargando verso nuovi orizzonti i propri confini.

La Lega Missionaria è stata per noi tutto questo.

I principi che ci ha trasmesso sono stati fondamentali nel corso della nostra vita per dare tensione alla nostra Fede e sviluppare sentimenti di accoglienza nei nostri rapporti con gli altri, poiché la nostra Missione l’abbiamo trovata nel nostro “mondo vicino”: nei gruppi amicali, nella scuola, nella famiglia, nel paese.

In questo momento storico particolarmente difficile, nel quale sembrano riemergere le paure verso I’ “altro”, il diverso, e sembra che la gente si rinchiuda sempre più nel

proprio individualismo e che i giovani si pongano in maniera passiva di fronte agli eventi che colpiscono il mondo, ci piace ricordare le parole di Senghor: ” Puoi strappare tutti i fiori ma non puoi impedire che la primavera ritorni.” E’ proprio ora che rinasca una nuova Primavera Missionaria. (Maris Fornaini)

 

La preghiera in terra dell’islam tiene uniti

I musulmani mi dicevano che l’uomo non può vivere senza Dio, che la preghiera è la cosa più bella della vita. Il venerdì, alla voce del muezzin il quartiere si fermava all’improvviso, tutti si mettevano in ginocchio. «Cosa faccio qui?», mi chiedevo ed ero spinto ad approfondire il mio essere cristiano, a rendermi conto di ciò che ci unisce anche se resta velato, prudente, in attesa.

Certo ognuno fa la sua preghiera. E se ci fosse anche un’unica preghiera? Comunque, quando si prega l’uno accanto all’altro, significa che si è sulla stessa direzione: avvicinarsi a Dio e Dio ci avvicina. Si accetta di lasciarsi condurre… e Dio lo sa fare.

Ecco due preghiere e per ciascuna un suggerimento di Christian de Chergé, monaco ucciso di Tibherine.

La prima è quella recitata al Cairo da musulmani e cristiani della Fraternità religiosa al termine delle loro riunioni.

Dio, a te ci rivolgiamo, in te poniamo la nostra fiducia, a te chiediamo aiuto e supplichiamo di accordarci la forza della fede in te e la buona condotta attraverso la direzione dei tuoi Profeti e Inviati. Ti chiediamo di rendere ciascuno di noi fedele alla sua credenza e alla sua religione, senza chiusura che fa torto a noi stessi e senza fanatismo che fa torto ai nostri fratelli di fede.

Ti imploriamo di benedire la nostra fraternità religiosa e di fare che la sincerità sia la guida che ci conduce, la giustizia, fine della nostra ricerca e la pace, il bene che vi troviamo. O Vivente, O Eterno, O Tu, a chi sono la Gloria e l’Onore. Amen

Suggerimento di Christian: «È importante lasciarmi trasportare il più avanti possibile nella preghiera dell’altro se voglio essere un cristiano vicino a un musulmano. La mia vocazione è di unirmi a Cristo attraverso il quale monta ogni preghiera e che offre al Padre misteriosamente questa preghiera dell’Islam come quella di ogni cuore giusto».

La seconda è la preghiera di Giovanni Paolo II pronunciata a Casablanca (Marocco, 1985) e in Senegal (1992) davanti ai musulmani.

O Dio, tu sei il nostro Creatore. Tu sei buono e la tua misericordia è senza limiti. A te la lode di ogni creatura. O Dio, tu hai dato a noi uomini una legge interiore con la quale noi dobbiamo vivere.

Fare la tua volontà è nostro dovere. Seguire le tue vie è conoscere la pace dell’anima. Guidaci in tutti i sentieri che percorriamo. Liberaci dalle cattive decisioni che allontanano il cuore dal tuo volere. Non permettere che invocando il tuo nome giungiamo a giustificare i disordini umani. O Dio, tu sei l’Unico, a Te la nostra adorazione. O Dio, giudice di tutti gli uomini, aiutaci a far parte dei tuoi eletti nell’ultimo giorno. O Dio autore della giustizia e della pace, accordaci la gioia vera e l’amore autentico e una fraternità durevole tra i popoli. Riempici dei tuoi doni infiniti. Amen.

Suggerimento di Christian: «Questa preghiera di Giovanni Paolo II rende concreto l’esercizio del suo servizio apostolico che è di convocare all’incontro con Dio tutti gli uomini e di confermare i suoi fratelli nella fede viva abbeverandoli alla sorgente dello Spirito che prega e geme nel cuore di ciascuno. Ministero di Eucaristia in atto, in cui il pastore riunisce i figli di Dio dispersi, suoi fratelli, per farne membri di un Corpo vivo entrando in sacrificio di lode… per la più grande gloria di Dio».

 

 

 

 

 

 

Il saluto è una porta e una benedizione

Qui in Italia saluto le persone del quartiere dove abito e che incontro per strada. Alcuni rispondono, soprattutto i bambini.

In Camerun, il saluto era la cosa che mi ha sempre interessato e che poi vivevo. All’inizio mi faceva ridere perché era una serie di domande: «Bene, la tua casa va bene? I tuoi figli stanno bene? Tua moglie va bene? Ecc., ecc». Finalmente dopo mesi, avevano cambiato. Al posto della moglie mi chiedevano: «La tua auto va bene?».

Ma ho presto capito che il saluto era un momento importante perché faceva sentire l’umore della persona che incontravo, preparava al dialogo e a stare bene insieme.

Poi in Algeria, anche coi miei amici musulmani, il saluto mi ha aperto a una relazione ogni giorno più vasta e profonda. Fin dai primi giorni ho salutato tutti. Non però le donne, come mi era stato subito consigliato. Ma poi un po’ alla volta c’è stato un progresso di conoscenza reciproca e per strada, anche qualche ragazza e qualche donna osava salutarmi. Erano le ragazze che venivano a fare i compiti da me e le mamme che le accompagnavano. Quando sei salutato, e con un bel sorriso, ti senti accolto, vicino.

Dal saluto cosiddetto laico: «Sbah kair» (mattino di luce), giunsi presto al vero saluto dei musulmani, religioso, «Salam aleikum» (pace a voi), perché loro stessi ormai conoscendomi mi volevano salutare così. Il saluto è anche accompagnato da qualche gesto, come quello di mettere la destra sul cuore per dire: «Ti porto nel cuore».
Il significato della parola “Salaam”, che alla lettera vuol dire “pace”, si spinge un po’ oltre, delineandosi come “salvaguardia” , “sicurezza” , e “protezione” dal male e dagli errori. Il nome di “Al-Salaam” è anche uno dei Nomi di Allah. Pertanto, il saluto della “Salaam”, suona come un “possa la Benedizione del Suo Nome scendere sopra di voi”.

Alla domanda: «Quale categoria di azioni dell’islam sono meritevoli?». Il Profeta rispose: «Dare sostentamento (cibo) agli altri e offrire il saluto della “Salaam” a coloro che conosci e a coloro che non conosci. Se entrando in un negozio, saluti con un bel sorriso, fai una sadaka, un’elemosina, un dono».

Il saggio Al-Qaadi ‘Ayaad ha detto: «Il saluto “Salaam” è il primo livello di rettitudine e la prima qualità di fratellanza, ed esso è la chiave per generare l’amore. Attraverso la pratica del saluto “Salaam”, l’amore dei musulmani, l’un per l’altro, cresce più forte ed essi dimostrano i propri simboli distintivi e diffondono un sentimento di sicurezza tra loro stessi».  Dire «Salaam ‘aleykum» (sia la pace con te) è meritare dieci ricompense.  Dire: «Salam ‘aleikum wa rahmat-Allah» (Sia la pace su di voi e la Misericordia di Allah) è meritare venti ricompense.  Dire: «Salam ‘aleykum wa rahmat-Allah wa barakatuhu» (Sia la pace su di voi e la Misericordia di Allah e le Sue Benedizioni) è meritare trenta ricompense.

Mentre giorni fa ero a Treviso in autobus, mi capitò di sentire un giovane che telefonava in arabo, seduto vicino a me. Al termine della telefonata gli dissi: «Salam aleykum». Quegli mi sorrise, un po’ sorpreso, e rispose: «Aleykum salam». E continuammo a parlare, in italiano per fortuna. Il saluto è anche una porta che ci fa dire: «Marhaba bika», benvenuto, la casa è aperta per te.

Ora… dico a voi: «Salam ‘aleykum!».