L’Italia sempre più “terra di missione”

«L’Italia è ancora una terra di missionari, ma è sempre più una terra di missione», afferma don Giuseppe Pizzoli, direttore della Fondazione Missio e dell’Ufficio nazionale per la cooperazione missionaria tra le Chiese. Prima di essere chiamato a Roma dalla Cei, è stato missionario nello stato brasiliano di Paraiba e in Guinea Bissau.

«Oggi la missione non è più unidirezionale come in passato: dall’Europa, nel nostro caso dall’Italia, al resto del mondo. Oggi possiamo dire che anche la missione si è “globalizzata”: fino a qualche mese fa vivevo in Guinea Bissau dove condividevo il lavoro missionario con religiosi e religiose provenienti dal Brasile, dal Messico, dal Kenya, dal Senegal, dall’Angola, dal Myanmar e dal Bangladesh. Io credo che la nostra Italia continua ad essere un terreno molto fertile di missionari. È pur vero che le vocazioni religiose, di consacrazione alla missione “ad vitam” soffrono di una profonda crisi, ma dobbiamo dire che la vocazione di laici missionari “ad tempus” ha avuto negli ultimi decenni uno sviluppo notevole e pensiamo che nel futuro prossimo possa avere un ulteriore crescita. Possiamo dunque dire che l’Italia è ancora una terra di missionari! Mi sembra comunque importante aggiungere una ulteriore riflessione: il Concilio Vaticano II ha riaffermato e il Papa Francesco ce lo ricorda continuamente – soprattutto con l’indizione del Mese Missionario Straordinario nell’ottobre prossimo – che la vocazione missionaria è radicata nel Battesimo ed ogni battezzato è per sua natura missionario. Dobbiamo dunque dire che in ogni luogo in cui ci sono delle comunità cristiane, anche se sono una strettissima minoranza, quella è una “terra di missionari”; e in ogni luogo in cui ci sono persone che non conoscono la fede o l’hanno in qualche modo messa da parte o abbandonata, quella è una “terra di missione”. Dobbiamo riconoscere che l’Italia, negli ultimi decenni, è diventata sempre più anche una terra di missione».

(La Stampa, 23 marzo 2018)

I martiri del Pime

Il 24 marzo 2023 ricorre la trentunesima Giornata dei missionari martiri. Dal 1850 a oggi sono 19 i missionari del Pime che hanno conosciuto il martirio.

Nel 1855 in Oceania il beato Giovanni Battista Mazzucconi,

Nel 1900 in Cina durante la rivolta dei Boxer viene ucciso Sant’Alberico Crescitelli. A cavallo tra il 1941 e il 1942, in un contesto storico delicatissimo, sempre in Cina avviene il martirio di padre  Cesare Mencattini, mons. Antonio Barosi, padre Girolamo Lazzaroni, padre Mario Zanardi, padre Bruno Zanella, padre Carlo Osnaghi e padre Emilio Teruzzi.

Tra il 1950 e il 1955 hanno pagato con la vita la loro testimonianza di fede altri cinque missionari del Pime nella turbolenta Birmania (oggi Myanmar): oltre ai beati Mario Vergara e Alfredo Cremonesi, i padri Pietro Galastri, Pietro Manghisi ed Eliodoro Farronato.

Nel 1972 in Bangladesh è stato ucciso padre Angelo Maggioni; nel 1974 a Hong Kong padre Valeriano Fraccaro.

Negli ultimi decenni sono stati uccisi nelle Filippine i padri Tullio Favali (1985), Salvatore Carzedda (1992) e Fausto Tentorio (2011), a conferma che il martirio appartiene alla vicenda missionaria di sempre.
Queste tre ultime uccisioni rispecchiano lo stile di presenza del Pime nel Paese e le modalità di testimonianza missionaria adottata, ieri come oggi: la denuncia dei soprusi dei potenti, la volontà di stabilire un dialogo costante fra cristiani e musulmani e, infine, la lotta in favore dei tribali e dei loro diritti.

Alla morte dei cinque missionari uccisi in Cina nel 1941/42, monsignor Balconi, superiore generale del Pime, scriveva ai membri dell’Istituto: «L’assassinio dei cinque confratelli non solo non ha disanimato nessuno, ma ha rinfrancato chi combatte sul campo, ha entusiasmato chi sospira di raggiungerli, ed ha sollevato un’ondata di fervida simpatia per l’Istituto e le sue missioni, per voi, confratelli carissimi, riguardati come i veri discepoli di Cristo, pronti a dargli anche la massima testimonianza d’amore: il sacrificio della vita. E già questo non sarebbe poco: rinnovarci tutti nel vero spirito missionario».

 

In ginocchio davanti alle bare

Antonio Maria Mira giovedì 2 marzo 2023 scrive su “Avvenire”. «I sindaci crotonesi si sono inginocchiati in preghiera accanto all’arcivescovo Raffaele Panzetta e all’imam Mustafa Achik davanti alle piccole bare bianche nella camera ardente nel palazzetto dello sport Palamilone che ospita le salme degli immigrati. Ringraziano il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella per la sua visita…che ha dato di nuovo dignità al nostro paese».

Tralasciando altri articoli sull’assenza o sul mal comportamento di qualcuno, o che pongono la domanda se si poteva evitare il naufragio, nel giornale ho trovato anche una pagina di Roberto Zanini che nel prezioso libro del gesuita spagnolo Javier Melloni  Il Cristo interiore, trova l’aiuto a capire il senso di mettersi un ginocchio davanti alle bare bianche.

«“Adamo dove sei?” (Gen 2,9). La prima domanda di Dio all’uomo. Una domanda profonda, esistenziale, che paradossalmente rimane senza risposta (…) Ieri come oggi, però, per la maggior parte di noi sembra restare senza risposta: sappiamo davvero dove siamo? Qual è il nostro modo di stare nel mondo e quale il compito nel succedersi delle cose e degli eventi che sono nella nostra vita? Con Gesù, però, le cose cambiano. I discepoli chiedono: “Maestro dove abiti?»” (Gv 1,39), dove stai? Qual è la tua vita, la tua verità nel mondo? (…)

Melloni, attraverso le azioni concrete del Cristo dei Vangeli, prende per mano il lettore e lo aiuta a immergersi nella propria interiorità attraverso quella di Gesù e quindi aprirsi all’azione dello Spirito che illumina. «“La vostra vita è nascosta con Cristo in Dio” – sottolinea citando Col 3,3 -. Lui è noi in pienezza e noi siamo Lui in gestazione fino a che non raggiungiamo l’Essere totale, quando “Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15,28)». Perché «il Cristo nascente dimora in ogni interiorità umana e ci sono semi di divinità ovunque. Gesù di Nazaret è venuto a svegliarci e da allora sta albeggiando, nonostante in nostro intorpidimento».