Padre Augusto Zanini

Nato nel 1908 a Bressa di Campoformido (Udine), iniziò la formazione

nell’Istituto nel 1923. Fu ammesso al Giuramento e ordinato Presbitero nel 1932. Partì per l’India (Vijayawada) nel 1933. Moriva il 07.05.1988 a Lecco. È sepolto nel cimitero PIME di Villa Grugana.

Sazio di giorni e di fatiche apostoliche, p. Augusto Zanini si spegneva nella Casa di Rancio di Lecco ii 7 maggio scorso. Aveva ottant’anni, essendo nato a Bressa di Campoformido (UD) ii 5 febbrario del 1908. Ordinato nel 1932, partì l’anno dopo per l’India dove lavorò per 53 lunghi anni. Un confratello di missione ne traccia ii singolare profilo.

Che la Messa d’orario delle sette e trenta incominciasse alle otto meno trenta, è sempre stato un pio desiderio, e per i cristiani delle varie parrocchie, e infine anche per quelli della cattedrale. Per P. Augusto Zanini, o perché soffrisse d’insonnia o perché fosse un patito del sonno, osservare un orario fisso era qualcosa contra la sua natura. Di qui i soventi trasferimenti; e lui e uno dei pochi che ha lavorato sodo nei tre distretti dell’Andhra che fanno o facevano parte della diocesi di Beewada (ora Vijayawada).

Augusto fu un pioniere che non conosceva limiti né di tempo né di spazio; uomo sempre disponibile, che poteva essere lanciato in tutte le direzioni. Aveva una filosofia tutta sua, ed era quella che gli permetteva di arrivare al traguardo in tempo utile, e quello che più importa sempre fresco. Ed era contento perché durante il suo tragitto nessuno l’aveva mai sorpassato. Costanza, meticolosità, puntiglio, e direi quasi una sottospecie di grinta, facevano parte del suo bagaglio apostolico. Da perfetto indiano non si surriscaldava mai, e nemmeno la più grande calura dell’estate lo faceva deflettere dai suoi piani. Arrabbiarsi non ne valeva la pena: perciò parlava pacatamente e ascoltava con pazienza; facendo dell’espressione: vedremo … il suo motto preferito.

Lavorò in missione per oltre mezzo secolo. II mal della pietra non I’ ha però mai toccato, semplicemente perché quanto a spiccioli ne ha sempre avuti pochi in tasca, e con quei pochi preferiva vivere ed aiutare catechisti e poveri. Ma quando si trattava di vero lavoro missionario, come predicare, istruire, evangelizzare, non si tirava indietro; anzi, lo svolgeva con grande impegno e passione, anche perché aveva una buona cognizione del Telegu, che parlava e leggeva con una certa bravura. Capiva la gente, e la gente sapeva apprezzare ii suo linguaggio molto semplice ma incisivo. Il suo contributo alla edificazione della Chiesa in India fu notevole. In ogni luogo in cui p. Zanini veniva inviato a svolgere ii suo lavoro missionario, fiorivano le conversioni. Voleva bene alla gente, si sentiva a suo agio tra i catechisti che amava, condividendo con loro sollecitudini, asie, preoccupazioni, e perché no? anche le gioie, e si faceva in quattro per aiutarli a crescere nella fede. Quando ormai ottantenne venne in Italia, alcuni mesi fa, aveva già abbastanza acciacchi per mettersi a definitivo riposo, ma intuendo che qui in Italia non avrebbe avuto lavoro, chiese di ritornare in India, dove sarebbe stato ancora utile, magari nella Casa Regionale. Purtroppo, vi rimase poco: il superiore regionale p. Picascia lo consigliò di ritornare in Italia, dove avrebbe sofferto di meno il caldo estivo. Ci fu appena il tempo di allestire una stanza per lui nella Casa di Rancio: dopa una manciata di giorni, p. Augusto diede l’addio a questo mondo. p. Egidio Chinellato

 

Padre Luigi Scuccato

Nato nel 1920 a Dueville (Vicenza), iniziò la formazione nell’Istituto nel 1940. Fu ammesso al Giuramento nel 1943 e ordinato Presbitero nello stesso anno. Partì per il Bangladesh (Dinajpur) nel 1948. Moriva il 18.03.2011 a Beneedwar (Bangladesh). È sepolto nella parrocchia di Beneedwar (Bangladesh).

Vedendolo arrivare, così magro, nessuno gli avrebbe dato molti anni di vita nella Missione Bengalese, definita “la Tomba dell’uomo bianco”! Verso la metà del secolo scorso, infatti, non erano pochi i Missionari morti per malattia o deperimento in quella terra. Eppure, Padre Luigi Scuccato ha fatto in tempo a vivere una lunghissima vita e a vedere tanto, tantissimo della storia del Bangladesh
Ordinato Sacerdote nel 1943 a Milano, dal Cardinale Schuster, dopo cinque anni trascorsi – a causa della Guerra – in alcune Parrocchie Lombarde, arrivò finalmente la sospirata destinazione: Pakistan Orientale, l’attuale Bangladesh! Così nel 1948, dopo quasi un mese di nave, treno e infine “biroccio”, Padre Luigi raggiunse Dhanjuri, sua prima destinazione, che in seguito definirà “primo amore”. Per imparare la Lingua “Santal”, parlata dai Tribali di quella Regione, e il “Bengalese”, andava tra i bambini più piccoli della scuola, faceva leggere qualcosa a un ragazzo e chiedeva agli altri di correggerlo. Per trovare la gente dei villaggi, inforcava la bicicletta e si metteva in viaggio. «Quanti chilometri hai macinato, Padre Luigi!», ricorda con affetto Padre Gian Paolo Gualzetti. «Forse è il segreto della tua lunga vita… Ma soprattutto volevi incontrare la gente, di villaggio in villaggio, a piedi o in bicicletta, perché fosse più facile incontrarti, ascoltarti!».
Padre Scuccato rimase a Dhanjuri fino al 1954, quando il Vescovo decise di spostarlo a Mariampur, dove vivevano diversi gruppi Tribali (“Santal”, “Oraon”, “Mahali”, “Malo”). Nella nuova Missione ci rimase per ben diciassette anni. Se Dhanjuri era stato il “primo amore”, Mariampur fu il suo “più grande amore”! C’era già la Chiesa in muratura, costruita nel 1930, la scuola, e un piccolo Ostello. Padre Scuccato comperò dell’altro terreno e vi costruì il Dispensario, l’Ostello per le ragazze e il Convento delle Suore. Gli fu particolarmente utile l’esperienza fatta a Dhanjuri, dove aveva imparato a usare la cazzuola e a cuocere i mattoni.
Terminato il suo servizio a Mariampur, appena prima della “Guerra di Liberazione” – nel 1971 il Paese ottiene l’Indipendenza dal Pakistan, diventando ufficialmente Bangladesh –, Padre Luigi tornò in Italia per le vacanze. Al suo rientro, tra il 1971 e il 1990, prestò il suo servizio in diverse Missioni – Boldipukur, Suihari, Dhanjuri, Mothurapur, Ruhea – , sempre impegnato nella promozione e nell’educazione dei Tribali. Per loro costruì scuole ed Ostelli. A Beneedwar, sua destinazione finale, trascorse i suoi ultimi vent’anni. Negli ultimi tempi, Padre Luigi si era particolarmente indebolito, al punto d’aver bisogno di una carrozzella per spostarsi. Dopo aver partecipato al Ritiro Comunitario, dall’1 al 4 marzo 2011, a Suihari, ed aver incontrato i confratelli, Padre Luigi aveva deciso di tornare a Beneedwar, per essere presente all’Inaugurazione dell’Ostello per ragazze, che aveva voluto con tutto sé stesso, fissata per lunedì 21 Marzo. Ma il Signore aveva un altro piano e lo ha chiamato a sé, rispondendo in questo modo al suo desiderio di poter morire a Beneedwar, tra la sua gente!
Come ha sottolineato Monsignor Gervas Rozario, Vescovo di Rajshahi, nell’Omelia funebre, Padre Luigi ha vissuto la sua Vita Missionaria in modo esemplare, predicando la Parola e facendosi carico soprattutto dei poveri, orfani e malati di ogni religione e razza. Il Vescovo ha anche sottolineato la semplicità di vita di Padre Luigi, il suo andare in bicicletta o a piedi per incontrare la gente. Ed ora, la sua Tomba si trova proprio a fianco della Chiesa di Beneedwar… Sarà, dunque, facile per la sua gente ricordarlo, e lasciarsi ancora ispirare dal suo esempio di vita povera ed “Evangelica”!

 

Padre Angelo Canton

Nato nel 1925 a Zoppola (Concordia-Pordenone), iniziò la formazione nell’Istituto nel 1946. Fu ammesso al Giuramento nel 1950 e ordinato Presbitero nel 1951. Partì per il Bangladesh nel 1953. Rientrò in Italia nel 2010 per motivi di salute. Moriva il 29.07.2014 a Lecco.  È sepolto nel cimitero di Zoppola (Pordenone).

friulano burbero amato dalla gente

Carissimo padre Angelo, noi ti abbiamo sempre chiamato Canton, ma ora che sei tra gli angeli e i Santi, è giusto chiamarti con il tuo nome di Battesimo, Angelo.
Sei arrivato in Bangladesh nel 1953 e allora il paese non ti aveva fatto una buona impressione. Dicesti ad un tuo confratello: “Non crederai mica che ci stia tutta la vita in un buco come questo”. Infatti… ci rimanesti ben 57 anni… Anni pieni di lavoro, sacrifici e anche di dolori: “Mai paura!” era la tua frase ricorrente. Ricordo che di fronte ai guai e ai fallimenti (e ne hai avuti anche tu, senza farlo sapere troppo in giro…) riprendevi di nuovo come se niente fosse, senza scoraggiamenti e lamenti. “Mai paura” e forse aggiungevi nel tuo cuore “Il Signore c’è”. Sei stato il mio primo Parroco. Ero arrivato dall’Italia che avevo 25 anni, tante idee, tanto entusiasmo, ma un giovincello senza esperienza. Mi hai insegnato prima con l’esempio che con le parole (non facevi tanti discorsi) a lavorare sodo per il Signore, senza perder tempo, e ad amare la gente. Gente semplice ed insieme difficile, che tante volte ti faceva arrabbiare: allora gridavi a voce alta, tanto che ti sentivano anche al di là del fiume… e io accorrevo pensando che fosse successo chissà che cosa e invece niente, erano problemi normali, di tutti i giorni. La gente ha, però, un sesto senso per capire che erano parole che venivano dal cuore e ti voleva bene: avrebbe fatto qualunque cosa per te.   Di carattere burbero, di poche parole, ma gran lavoratore, instancabile dal mattino alla sera, non hai mai trascurato la preghiera e il ministero pastorale. Al mattino presto eri già in chiesa, prima che la giornata incominciasse, prima che la gente venisse con i suoi problemi e i suoi dolori, a fare il piano di lavoro con il Signore…
Grazie padre Angelo, per tutto quello che hai fatto qui in Bangladesh, per tutta la fatica, il sudore e le lacrime (queste tenute sempre nascoste) che hai donato a questa gente. Riposa in pace ora e prega per noi il Signore, perché possiamo vivere la nostra vita missionaria con la tua forza e il tuo entusiasmo senza tanti lamenti o scoraggiamenti: “Mai paura”, il Signore c’è e ora ci sei anche tu a darci una mano.
Grazie padre Angelo! (Padre Quirico Martinelli).

Padre Luigi Pinos

Nato il 04/01/1921 a Portovecchio (Concordia-Pordenone), iniziò la formazione nell’Istituto nel 1934 e fu ammesso al Giuramento nel 1944. Ordinato Presbitero nel 1945, nel 1948 partì per il Pakistan Orientale (Dinajpur). Servì l’Istituto in Italia dal 1987 al 1997.  Morto il 20/06/2001 a Rajshahi (Bangladesh) è sepolto nel cimitero di Rajshahi (Bangladesh).

Inizi del Cattolicesimo nel Nord Bengala

Durante i miei 35 anni in Bangladesh, ho incontrato molti Bengalesi che non erano a conoscenza dell’esistenza di Cristiani “nativi” nel loro paese. Questo non ci deve sorprendere se consideriamo che i Cristiani sono soltanto lo 0,3 % della popolazione (la stima ad oggi (1983) è di 170.000 cattolici e di 100.000 protestanti su di una popolazione di circa 90 milioni).

Si può inoltre essere tratti in inganno da quanto alcuni Bengalesi credono: e cioè che i Cristiani sono persone che sono state sottratte ad altri gruppi religiosi con vari sistemi, detti o meno. Noi dobbiamo soltanto far conoscere la storia dell’inizio della Cristianizzazione nel Nord Bengala per evidenziare che non è così.

Durante la mia permanenza in missione, sono venuto a conoscenza delle origini dei vari gruppi cristiani nel nord Bengala ed ho sempre desiderato di scrivere su questo argomento.

Nel preparare questo mio lavoro ho tratto vantaggio di libri quali ” Crucial Issues in Bangladesh” di P. McNee e “Khristyo Bongyo Mondolir Itihas” di P.K.Barui. È stata naturalmente molto utile la consultazione dell’archivio storico del PIME e di quello della diocesi di Dinajpur. Ho attinto anche a documenti e manoscritti dei Padri Cavagna, Bonolo, Scuccato del PIME e dei Sigg. Paulus Marandi di Dhanjuri, Sotish Das di Sadamohol e Remige Kerketta di Boldipukur. Padre Achille Boccia mi ha inoltre preparato alcune piantine molto utili.

Ma in particolare io ho avuto modo di incontrare alcuni dei protagonisti menzionati nel mio libro e con alcuni di essi, in particolare Arjun Marandi, Sam Soren e Mohoto Das ho mantenuto una stretta amicizia. Ho avuto infinite occasioni di sentire anche i vecchi missionari e le persone anziane che sono stati i partecipanti diretti di questo processo. Nel 1904 Prem Chand aveva già 65 anni, ma io lo ho potuto ugualmente conoscere per mezzo di Chondro Babu, un giovane Presbiteriano con cui ho parlato e che conosceva bene Prem Chand.

Io ho scritto questo mio lavoro in inglese ma conto di riscriverlo in bengoli, in quanto i lettori a cui miro sono i Cristiani del nord Bengala. Queste note non vanno considerate come una presentazione dei successi dei missionari, ma una presa di coscienza dei tempi di Dio e della risposta alla sua chiamata che si è avuta da parte dei differenti popoli del Nord Bengala

Padre Luciano Morandin

Nato il 13/12/1940 a Villa del Conte (Padova), iniziò la formazione nell’Istituto nel 1951. Fu ammesso al Giuramento nel 1963. Ordinato Presbitero nel 1964, partì nel 1968 per il Brasile dove lavorò nell’Amapá e nel Brasile Sud. Servì l’Istituto in Italia dal 1982 al 1988. Moriva a Brusque (Brasile) il 08/02/10 e riposa nel cimitero di Ibiporã (Brasile).

Era entrato nel “Seminario” del “PIME” di Treviso a 11 anni e poi ordinato “Sacerdote” a Milano nel 1964. Dopo quattro anni nel “Seminario” di Cervignano come “animatore” ed “economo”, è stato destinato al “Brasile Sud”. I primi due anni li ha passati come “coadiutore” nella “Parrocchia” di Sertanópolis, poi è passato come “direttore spirituale” al “Seminario” di Assis, dedicandosi allo stesso tempo all’”animazione vocazionale”.

Grande sofferenza gli causò la chiusura di quel “Seminario” nel 1977. Allontanatosi dagli impegni “vocazionali” in Brasile, è stato per un certo tempo in Italia, a Treviso, e poi per due anni (1988-1990) a Macapá. Cambiata la “politica vocazionale” del “PIME” in Brasile, è tornato a lavorare nei “Seminari” di Palhoça e Brusque nella “formazione” e “animazione missionaria”. Padre Luciano ha coltivato con amore i rapporti con le “famiglie” dei “Missionari” ed anche con gli “ex alunni”. Li visitava frequentemente ed ha cercato di costruire fra loro una “rete” di “amici” del “PIME” e di “collaboratori” delle “missioni”.

Una qualità di spicco nella sua attività era la sua dedizione alla “gioventù”. Quando era libero da impegni nella “formazione” dei “Seminaristi”, trascorreva i suoi “fine settimana” in varie “Diocesi”, per “Conferenze” e “Confessioni”, durante gli incontri dei “giovani”. E il “Ministero” della “Confessione” è stato una costante della sua “vita sacerdotale”: appena era libero, andava a rinchiudersi in un “Confessionale”, per offrire la “riconciliazione” e la “direzione spirituale” a tante persone che lo ricercavano.

Negli ultimi anni gli è stato chiesto di prendersi cura della “Casa Regina degli Apostoli”, che ospita i “Missionari” anziani ed ammalati. L’ha fatto con grande “dedizione”, trattando ognuno come fosse l’”unico”. Ha lasciato un grande esempio di “obbedienza”. Il penultimo “Sì” l’ha detto accettando l’incarico di “direttore spirituale” nel “Seminario” di Brusque. È arrivato il 5 Febbraio, ma l’8 il Signore l’ha chiamato improvvisamente a sé.

È stato l’ultimo “Sì” di Padre Luciano! (P. Antonio Palermo)

 

 

Padre Egidio Mozzato

Nato il 01/09/1940 a Martellago (Treviso), iniziò la formazione nell’Istituto nel 1950. Fu ammesso al Giuramento nel 1967 e ordinato Presbitero nel 1968. Servì l’Istituto in Italia dal 1968 al 1975. Partì per l’Amazzonia (Parintins) nel 1975, con una breve parentesi in Italia dal 1995 al 1998. Moriva 16/05/2020 a Lecco e riposa nel cimitero PIME di Villa Grugana.

Una vita tra la gente di Parintins

Padre Mozzato era nato il 1° settembre 1940 a Martellago, in provincia di Venezia e diocesi di Treviso. Entrato ad appena 10 anni nella casa di formazione del PIME a Treviso, aveva continuato la sua formazione nei seminari dell’istituto fino all’ordinazione sacerdotale avvenuta nel suo paese natale il 22 giugno 1967, per mano di mons. Aristide Pirovano, allora superiore generale del PIME. «La gioia è il segreto del cristiano», aveva fatto scrivere sull’immaginetta ricordo di quel giorno: e il sorriso l’avrebbe sempre accompagnato nel suo ministero.

Dopo un primo servizio di animazione come vicerettore del Seminario del PIME Treviso e nella pastorale vocazionale nelle diocesi di Gorizia e di Udine, nel novembre 1975 partì per Parintins, nell’Amazzonia brasiliana, diocesi in cui è rimasto fino al suo rientro nel 2019 (salvo la parentesi di un altro servizio all’istituto, svolto proprio nella casa di Rancio dal 1995 al 1998).

A Parintins padre Mozzato è stato missionario in diverse parrocchie: Maués, Boa Vista do Ramos, Barreirinha, Itaúna, São Benedito, la cattedrale di Santa Maria del Carmine. Negli ultimi anni nella città di Parintins era tornato nella parrocchia di São Benedito, il santo nero, il più caro alla devozione popolare nel nord del Brasile. In una sua lettera agli amici, apparsa su Missionari del PIME, nel maggio 2001 raccontava: «Quello che mi fa felice è, la domenica, vedere la chiesa super affollata di gente che canta, prega e ascolta: sanno che la domenica è il giorno del Signore; anche il vescovo è rimasto impressionato nel vedere una chiesa piena di ragazzi, fin sotto l’altare. Qui c’è vita, c’è gioia! Nella vostra preghiera mettete anche il mio nome e grazie per il bene che mi volete».

Annunciando la sua morte a Parintins il vescovo Giuliano Frigeni, anche lui missionario del PIME, ha ricordato padre Egidio come un uomo semplice, interamente dedicato al ministero dell’evangelizzazione: «Ha formato generazioni di catechisti nelle parrocchie dove è stato».

 

Mons. Giavanni Battista Gobbato

Nato il 16/05/1912 a Sernaglia della Battaglia (Vittorio Veneto), iniziò la formazione nell’Istituto nel 1926. Fu ammesso al Giuramento e ordinato Presbitero nel 1934. Partì per la Birmania (Taungngu) nel 1935 e fu uno dei pionieri della missione del PIME tra i Karen in quel paese. Dal 1961 al 1989 fu Vescovo per 28 anni della nuova diocesi di Taunggyi e scherzosamente ricordato come “Il vescovo con la valigia”. Morto il 06/08/1999 a Taunggyi, Myanmar è stato seppellito nella cattedrale.

Il vescovo con la valigia 

Ordinato prete nel 1934, padre Giovanni Battista ha messo piede per la prima volta in Birmania nel 1935, destinato alla missione di Toungoo. Se ne è allontanato solo per alcuni anni, dal 1941 al 1946, ma non per sua scelta.

Furono le autorità coloniali inglesi ad offrire a lui e agli altri giovani padri italiani un soggiorno gratuito in India: nei campi di prigionia per i cittadini delle potenze dell’asse Berlino-Roma-Tokyo che avevano appena scatenato la Seconda guerra mondiale. Se si esclude questa parentesi, la vita di padre Gobbato è stata, come diceva lui, un fare e disfare bagagli. Le aree circostanti Loikaw e Taunggyi, dove ha speso le sue energie, erano prive di strade. Inutili le auto. Tutti gli spostamenti dovevano avvenire a piedi o a cavallo, in carovane composte dal missionario, da un maestro-interprete e da alcuni portatori. Un continuo saliscendi di colline e montagne ricoperte di una fitta vegetazione brulicante di animali di ogni genere, innocui o letali, come tigri e serpenti.

La vita dei missionari del PIME in Birmania corrispondeva in quei frangenti agli schemi più classici della missione. Si veniva esposti a un’esistenza molto dura e spesso solitaria. La vita di comunità con i confratelli italiani si riduceva a rare occasioni di convivialità. Il missionario si appoggiava all’invincibile convinzione di essere inviato a portare la salvezza a popolazioni pagane attaccate a superstizioni dure da sconfiggere. Disposizione d’animo che consentiva anche di andare allo sbaraglio.

Mons. Gobbato amava tornare con la memoria a una delle sue prime destinazioni. Si trovava in Birmania da pochi mesi ed era ancora alle prese con lo studio dell’inglese (che non si apprendeva in Italia prima di partire) e del birmano, la lingua dell’etnia maggioritaria, comunque, poco utile tra i gruppi etnici a cui i missionari erano inviati. “L’antivigilia dell’Assunzione del 1936, raccontava il vescovo, vengo accompagnato da padre Bartolomeo Peano a Mawchi Mines, una località in cui lavoravano circa 150 minatori cariani (karen, ndr). Il confratello mi mostra la casa e poi dice: “Io domani torno a Loikaw, perché dopodomani è l’Assunzione”. Gli chiedo: “Io cosa faccio qui?” Non so la lingua locale”. “Sai dire la Messa?”. “Sì, con quella mi arrangio”. “Bene. Dirai Messa intanto”. Sono stato lì circa due anni, arrangiandomi con il birmano, poi ho imparato il cariano bianco, la lingua utilizzata, ad esempio, nei libri di preghiere. Ho imparato un mucchio di parole, che però non sapevo mettere insieme. Quando mi sono impadronito del cariano bianco ed ho buttato via il birmano il vescovo mi ha trasferito a Loikaw, come assistente dello stesso padre Peano. Così ho dovuto apprendere un’altra lingua, quella dei cariani rossi”. “Il padre, ricorda Gobbato, era afflitto dal “male del mattone”: lui fabbricava, io giravo, come mi aveva detto di fare il vescovo. Quando arrivavo nei villaggi non cristiani, venivo ospitato in genere dal capo villaggio. L’ospitalità era sempre buona, ma si trattava comunque di sedere e dormire per terra. Di notte ero divorato dalle cimici. Arrivavo al villaggio con un maestro, un portatore e un paio di ragazzi che trasportavano l’altarino per la Messa e medicinali. Mentre io mi ritiravo nella giungla per recitare l’Ufficio divino, la gente accostava il maestro per porgli domande su di me: “Chi è? Ha moglie? Che ci fa qui?” Io facevo l’orso e lui spiegava che venivo per amore di Dio e li invitava a venire la sera per incontrarci”.

I risultati non mancavano. Parecchi villaggi chiedevano il battesimo e Gobbato, pur senza perdere semplicità e umiltà, rafforzava dentro di sé le già forti convinzioni: “Siamo condannati ad aumentare, così come siamo condannati a vincere. Poco, ma sicuro”. “Quando sono arrivato a Loikaw, ricordava ancora recentemente, di cattolici c’erano Padre Peano, cinque suore e una decina di fedeli. Adesso ce ne sono 12.000, anche se non tutti locali: parecchi sono scesi dai monti”.

Diventato vescovo, Mons. Giovanni Battista, non ha smesso di viaggiare. Per una decina di volte si è recato in visita pastorale in tutti gli angoli della sua diocesi, estesa su 84.000 chilometri quadrati: una superficie quasi pari all’Italia settentrionale. Ovunque ascoltava i problemi della gente, dovendosi spesso misurare con le questioni morali implicate dalle crisi familiari e matrimoniali.

Tra le sue lettere agli amici italiani se ne trovano alcune in cui descrive divertito i menù che gli venivano proposti nelle missioni. Sovente i piatti più prelibati erano costituiti da grossi vermi, insetti o foglie raccolte nella foresta. Durante l’episcopato di Mons. Gobbato dalla diocesi di Taunggyi è nata nel 1988 quella di Loikaw, che ha sede nella capitale dello stato del Kayah. Vi si registra oggi un’alta concentrazione di cristiani. Anche nella diocesi madre il numero dei credenti in Cristo è alto.

Padre Gobbato ha promosso e sostenuto numerose associazioni laicali, sia pure di stampo tradizionale, ancora lontane dalle dinamiche dei movimenti ecclesiali sorti in ambito occidentale negli ultimi decenni. Su questo tronco si è innestata, per opera di mons. Matthias U Shwe, l’esperienza degli zetaman, cioè i “piccoli evangelizzatori”, giovani, soprattutto di sesso femminile, che si dedicano con generosità ad un apostolato itinerante per un periodo che può arrivare fino a due anni. Una cura particolare mons. Gobbato ha messo nella formazione del clero, oggi giorno, ormai numeroso e in grado, almeno potenzialmente, di impegnarsi nella missione ad gentes. (Mondo e Missione ottobre 1999, a cura di Giampiero Sandionigi)

Padre Carlo Menapace

Nato nel 1942 a Tassullo (Trento), iniziò la formazione nell’Istituto nel 1962 e fu ammesso al Giuramento nel 1967. Fu ordinato Presbitero nel 1968 e partì per il Bangladesh (Dinajpur) nel 1978. Moriva il 01.06.1991 a Cles (Trento).

La missione di Mariampur è legata al ricordo di un caro amico, p. Carlo Menapace. Ricordarlo è sempre un piacere, direi un incoraggiamento, anche se venato di nostalgia. Era nato nel 1942, un anno prima di me, a Tassullo (Trento), e mi aveva preceduto di un anno nel diventare membro del PIME (1967), nell’essere ordinato prete (1968), nel partire per il Bangladesh (1978). Mariampur è stata la sua prima e unica missione, all’inizio come assistente, e poi come parroco. Negli anni in cui cercavamo “vie nuove” e guardavamo con sospetto la “struttura” della parrocchia, sospettata di essere chiusa su sé stessa e di sottrarre energie alla prima evangelizzazione, lui si era tuffato senza distrazioni proprio in quella “struttura”, ma fu capace di non lasciarsene paralizzare. Anzi…

Ci vedevamo in occasione di incontri o ritiri spirituali del PIME, arricchendo di chiacchierate tutti gli spazi di tempo possibili. Sapeva cogliere nella gente gli aspetti buoni e positivi che molti non vedono o cui non danno valore. “Ingenuità”, diceva qualcuno, ma si trattava dello sguardo di un uomo dal cuore puro, appassionato del Vangelo, e perciò degli altri… tutti.

Andai a trovarlo in parrocchia in un periodo in cui era solo, penso poco dopo il 1981. Trascorsi con lui tre giorni, aiutandolo a tenere un incontro con i catechisti, ascoltandolo molto. Era appassionato di ciò che faceva, soprattutto del “suo” popolo, che erano i membri della parrocchia, certo, ma non soltanto loro. Mentre passeggiavamo fra la casa e la chiesa (costruita anni prima, sul modello di non ricordo quale chiesa lombarda) passò accanto a noi un ragazzo; Carlo lo chiamò, e scambiammo quattro parole; era un po’ imbarazzato ma contento della nostra attenzione. Mentre se ne andava, p. Carlo mi chiese: “Secondo te, quanti anni ha?”. “Difficile dirlo – risposi – 12 o 13?”. “Ne ha certamente più di 20, ma è come un… bonsai: la denutrizione gli ha impedito di svilupparsi. Sono parecchi i giovani nelle sue condizioni. Che lavoro può fare? Certo non il manovale, ma a scuola non è potuto andare, e anche lo sviluppo dell’intelligenza è stato rallentato. Vorrei inventare qualche cosa per questi “figli della fame” … Ancora oggi, a Mariampur, c’è una piccola scuola tecnica, che dopo qualche anno di chiusura il Vescovo mons. Sebastian ha voluto riaprire. Insegna a ragazzi che non hanno altre possibilità i rudimenti di qualche attività utile: riparare una bicicletta o un riksciò, per i più bravi magari dare un’occhiata ad una pompa idraulica difettosa.

  1. Carlo aveva idee, era capace di organizzare e avviare iniziative: non fece grandi progetti, ma “piccole” cose che erano ritagliate apposta per i bisogni del momento; fra l’altro anche un impianto di biogas, forse il primo della zona.

Non è raro trovare persone di Marianpur che dicono con fierezza di essere stati suoi “discepoli” (e fra loro anche mons. Sebastian), o di aver sentito parlare di lui dai genitori, e io mi sono chiesto quale fosse il centro del suo interesse, e quale il motivo della sua popolarità. Il suo obiettivo fondamentale era accompagnare la sua gente alla preghiera, a un rapporto vivo con Gesù scoperto nei Vangeli. Ogni giorno una frase del Vangelo, una parola di commento, una breve preghiera ripetuta perché “entrasse” nella mente e nel cuore, o una ripresa della liturgia domenicale, o una riflessione su qualcosa che era accaduto. Era contento di pregare con loro: la preghiera non era un dovere, o qualcosa da insegnare, era un momento di incontro con Gesù insieme a loro. P. Carlo, senza ostentazione, sapeva trasmettere la fede con cui lui stesso cercava il Maestro. Vedeva e valorizzava i progressi anche minimi della sua gente: una riconciliazione, una collaborazione, un aiuto, un consiglio…

Stava anche preparando un sottocentro della vastissima parrocchia che era affidata a lui, per sistemarvi un gruppetto di laiche animate a dedicarsi all’evangelizzazione; già collaborava bene con le Suore di Maria Bambina, e vedeva in questa iniziativa una possibilità in più di valorizzare le donne nella missione della Chiesa.

Poi… gli diagnosticarono un tumore maligno, e dovette ritornare in Italia. Con fatica volle rivedere uno per uno tutti i “suoi villaggi”, spiegando perché se ne andava. Fu proprio così.

Rividi P. Carlo in Italia, molto provato, ma sereno. Strappò ai medici il permesso di ritornare per qualche settimana, e fu un pellegrinaggio di saluto, abbreviato dall’aggravarsi delle sue condizioni. Qualcuno gli scattò una fotografia che lo riprese di spalle, mentre pedalava faticosamente su un sentiero fangoso, tenendo sul portabagagli della bici una grossa croce di legno da consegnare alla gente in attesa della sua visita. Una fotografia che dice tanto, tantissimo della sua vita, e che circola ancora adesso fra noi. Morì poco dopo il suo ritorno in Italia, a Cles, nel 1991. Dopo tanto tempo, a Marianpur e in vari “sotto-centri”, ancora organizzano ogni anno una giornata di ricordo e preghiera per lui, animata da un torneo di calcio: il “Menapace Football Tournament”. (Padre Cagnasso)

Su Mondo e Missione, dicembre 1990, era apparso un articolo di padre Carlo: Mariampur le grandi donne delle fede” La Missione a volte è donna. Padre Carlo Menapace, del Pime a Mariampur (Bangladesh), raccontava come madri di grandi fede possono farsi irripetibili nella testimonianza di un cristianesimo concreto. Esperienze controcorrente per la dignità femminile in un paese islamico.

 

 

Padre Riccardo Magrin

Nato il 02/01/1924 a S. Pietro in Gù (Vicenza), iniziò la formazione nell’Istituto nel 1937. Fu ammesso al Giuramento nel 1948. Ordinato Presbitero nel 1949, servì l’Istituto in Italia fino al 1954, quando partì per il Giappone. Nel 2001 di ritornare in patria ma il dott. MichioIde, direttore dell’ospedale di Kurume, lo ha invitato a diventarne il cappellano e p. Magrin ha accolto l’invito. Moriva 26/11/2008 a Fukuoka (Giappone) e riposa nel cimitero di Tosu (Giappone).

Un cuore limpido, retto e fedele…, come nell’elogio di Gesù a Natanaele. Con P. Magrin Riccardo mi legano molti ricordi personali, dovuti anche alla nostra provenienza, lui di San Pietro in Gù (Vicenza) e io di Fontane di Villorba (Treviso): una mia zia (sposa di un fratello di mia mamma) proveniva dal suo paese natale.  Qui, quando P. Riccardo era ragazzo, cappellano della sua parrocchia era il sacerdote che divenne poi Vescovo di Treviso, S.E Mons. Antonio Mistrorigo, con il quale P. Magrin tenne sempre una cordiale amicizia. Il Vescovo Mistrorigo – come si sa – iniziò e portò avanti per molti anni una fruttuosa collaborazione con il PIME.

Ma ci incontrammo la prima volta solo in Giappone quand’era parroco a Karatsu, una delle chiese della Prefettura di Saga, affidata al PIME come “Missione”, la terra dove dedicò tutta la sua vita missionaria servendo in varie chiese, come le circostanze chiedevano, fino a Tosu che fu l’ultima parrocchia in sua cura, e poi servendo come cappellano presso il grande ospedale Sei Maria Byoin a Kurume, dove concluse il suo cammino. P. Magrin lasciò in coloro che lo conobbero una profonda impressione come uomo di Dio, sempre in umile servizio dell’annuncio e della testimonianza di Fede per la quale aveva consacrato la sua vita al Signore che lo aveva chiamato fin da piccolo. Forse si può dire che il motivo per cui era amato non era dovuto tanto a particolari talenti umani quanto alla sua trasparenza e candore, che mi ricorda le parole di Gesù a Natanaele: “Ecco davvero un israelita, in cui non c’è falsità” (Gv. 1,47). Padre Riccardo portò sempre con sé quella qualità evangelica di bambino che caratterizza chi vive sempre davanti al suo Signore.  Anche se schivo, amava la compagnia e accettava lo scherzo. Ma la sua pietà lo avrebbe portato forse alla vita di clausura se non avesse sentito da sempre e se non avesse saputo accogliere ogni volta con rinnovato coraggio e spirito di fede quella spinta missionaria che lo aveva sradicato dalla sua amata terra. Così fu per lui come un premio quando, arrivata l’età, gli fu chiesto di dedicarsi, negli ultimi anni, alla cura dei malati nell’Ospedale Santa Maria di Kurume. Finalmente poteva dedicarsi senza preoccupazioni solo alla pietà e alla carità. Fu uno dei “giovani” della prima generazione della Missione del Giappone con P. Giannini, di cui fu compagno da quando, giovani sacerdoti, insieme al P. Claudio Gazzardi, guidavano il piccolo seminario del PIME a Vigarolo (Lodi), Il primo restò sempre a Yamanashi, il secondo a Saga, e la loro memoria ci accompagnerà sempre.

E la sua testimonianza si diffuse come il profumo di Cristo (cfr. 2Cor. 2,14) che tutti siamo chiamati ad essere. Il giorno del funerale nella Cattedrale di Fukuoka la gente era numerosa. Si volle anche pubblicare un libretto in suo ricordo. Ora riposa nel cimitero della chiesa di Tosu. (p. Bianchin)

 

Padre Giovanni Cadorin

Nato il 16.08.1880 a Taibon (Belluno), entrò nell’Istituto nel 1907. Fu ordinato Presbitero e partì per la Birmania (Taungngu) nel 1911. Dal 1937 servì l’Istituto in Italia. Morì il 06.01.1951 a Monza ed è sepolto nel cimitero del PIME a Villa Grugana.

Il 6 gennaio 1951. consumato da lunga e penosissima malattia, cessava di vivere il P. Giovanni Cadorin. Durante il tempo che fu costretto a stare in casa di cura a Monza, edificò tutti, suore e infermieri, col suo contegno ammirevole, sempre paziente, sempre caritatevole, sempre umile e docile, come un bambino. Dalla sua bocca non usciva un lamento, non un rimpianto; che, anzi, sapeva nascondere così bene il suo male, che pure lo tormentava terribilmente, da meravigliare quanti gli erano accanto, e da suscitare, lui ammalato, ilarità e allegria, che non sono le note abituali di un ospedale. Per questo, quando chiuse dolcemente gli occhi, e la sua anima se ne vola a Colui, Che aveva saputo tanto bene imitare nella via della croce, gli infermieri non riuscirono a trattenere le lacrime e ne esaltarono le virtù, come se si trovassero di fronte ad un santo; qualcuno di essi, anzi, si raccomandò alle preghiere del buon padre sofferente, per ottenere speciali grazie dal Signore, e, come ci fu narrato da loro stessi, l’effetto fu immediato e oltremodo salutare. P. Cadorin era nato a Taibon, provincia di Belluno, ii 16 agosto 1880. Entrato nell’Istituto il 13 novembre 1907, partiva, tre mesi dopo la sua ordinazione, il 15 settembre 1911 per la Birmania. Conosce Lei ii prete di Hoya? Certamente! P. Cadorin. Ma che razza d’uomo e costui? Italiano. Capisco. Volevo dire, che razza di tempra dev’essere quest’uomo per poter vivere così a lungo fra gente semi­selvaggia e in un luogo così tetro. Io non ci starei nemmeno per tutto I ‘oro del mondo. E anche lui, sa, non ci starebbe… Ma ci sta solo per amore di Dio e delle anime. Chi parlava così, era un ministro anglicano, che veniva appunto da Hoya. Assuefatto ai comodi della città, gli sembrava incredibile che un europeo potesse vivere in quel lontano e oscuro luogo di montagna. E veramente, solo il fatto di aver potuto e saputo trascorrere la vita, dura e solitaria, in quei tempi proprio nel centro della rozza tribù Pre, senz’alcun conforto umano, ha dell’incredibile. Eccetto il primo anno passato tra i Kani, nel distretto di Leiktho, il P. Cadorin trascorse la sua vita missionaria tra i suoi cari Pre. Si richiedeva proprio una tempra d’acciaio per la nuova residenza di Hoya, e ii vescovo pensava chi potesse mandarvi. II P. Gussoni, che vi aveva dimorato un anno, non si sentiva più di tirare avanti, tanto si era esaurito per la troppo dura vita. Se crede, Monsignore, ci vado io – disse calmo Padre Cadorin. Ma la ringrazio proprio di cuore – sospiro allora Mons. Sagrada. Bravo, Cadorin – esclamarono tutti i padri presenti, che si erano riuniti per gli annuali esercizi spirituali. Sono i Pre la razza cariana, fisicamente la pit1 attraente, ma la più selvatica e la più misera. Attaccatissimi ai loro tradizionali costumi pagani, e assai difficile guadagnarli al­ la Chiesa. I più lontani da ogni via di comunicazione, appollaiati su quelle cime rocciose, coperte di fitta boscaglia, sono anche i più retrogradi nella civiltà. Fu appunto fra questa gente così rude, che P. Cadorin rimase venticinque anni, adattandosi alla loro mentalità per poterli guadagnare alla fede. Colà, durante la stagione delle piogge, i fiumi s’ingrossano e i ponti altro non sono che tre bambini legati assieme. appesi ai rami di due alberi, situati sulle opposte sponde e protendendosi uno verso l’altro. Non tutti si è equilibristi! E non lo era neppure P. Cadorin, il quale, perciò, era costretto a restarsene solo nella sua umida casetta di legno, parecchi mesi all’anno, senza poter avere la consolazione della visita di un confratello.

I Pre soffrono la fame molto di frequente. La loro terra rende quasi niente. A chi andare per aver un po’ di soccorso? Al buon padre missionario, naturalmente. E P. Cadorin andava incontro ai loro bisogni con riso, tabacco, sale e denaro, facendosi promettere che, poi, all’occorrenza, sarebbero andati a prendere la sua roba a Toungoo e portarla ad Hoya. Nonostante le difficolta di trasporto dalla città ad Hoya, P. Cadorin riuscì a costruire tra i suoi Pre una bella chiesina e altri fabbricati in legno. I Pre – diceva lui ·-­ bisogna saperli prendere dal loro verso, e usare con loro molta pazienza, diversamente non si ottiene niente. E col suo modo affabile riuscì a convertire vari villaggi e ad infondere più vita cristiana nei già battezzati.

La sua carità per i cristiani, specialmente in occasione di gravi calamità, come epidemie ed incendi, era straordinariamente generosa; allora non pensava più a sé, ma unicamente ai bisognosi, per i quali si privava anche de! necessario. Fra i Pre si usa fabbricare le capanne di bambù le une accanto alle altre, cosicché, se si sviluppa l’incendio in una, generalmente non se ne salva nessuna. Mi ricordo ancora di un’accorata relazione che P. Cadorin scrisse sul nostro giornaletto cariano, invitando tutti i cariani a dare il loro modesto contributo per la sua gente di Htekhu e Bija, due grossi villaggi, rasi completamente al suolo da un incendio. Appena fuori del villaggio di Hoya c’è una bellissima grotta naturale di stalattiti calcarei; vi mancava soltanto la statua della Madonna per farne una copia di Massabielle. Ce la mise lui, la statua che era così bella, che sembrava un sorriso di cielo. Non lo crederesti — mi diceva il suo successore, P. Rovagnati – ma è la pura verità: il P. Cadorin, quand’era a casa, vi conduceva tutte le sere i suoi ragazzi a recitare il Rosario, o, in tempo piovoso, almeno tre Ave Maria. Ancora oggi si segue il suo esempio, nonostante che la grotta disti due chilometri di poco facile cammino. Negli ultimi anni, diventato quasi cieco e con il corpo che andava sempre più cedendo ai diritti della morte, non lo si vide mai lamentarsi. Soffriva indicibilmente, e il suo unico conforto lo trovava nella ininterrotta preghiera e nel ricordare la sua cara missione, alla quale era attaccatissimo, anche dopo il suo forzato rimpatrio avvenuto nel 1937. La sua anima, purificata nel crogiuolo de! dolore, volò al cielo a ricevere il premio eterno, mentre la sua memoria rimane in benedizione, soprattutto tra i Pre della Cariania, per i quali fu pastore, padre e benefattore. Per tutta la sua vita fu dominato unicamente cla una duplice passione: Dio e le anime. Non esisteva altro ideale per lui. P. RINALDO Bossi miss. a Toungoo