Nuova Parrocchia a Yaoundé

Il 15 novembre 2020, festa dei 20 anni di sacerdozio del prete Cristian Biwolé, parroco della parrocchia dedicata a San Martino di Tours, nata nel luglio 2019 distaccata dalla parrocchia di Santa Teresa di Lisieux.  Essa si trova lungo e a destra della strada che conduce dal centro della città all’aeroporto. Presiede la celebrazione eucaristica mons. Blaise Pascal Mfaga, vicario generale.

La cappella è una baracca in una zona, mezza città e mezza foresta. Attorno, le strade di terra rossa sono piene di polvere quando non piove, diventano sapone durante e dopo le piogge.

Accanto alla baracca, in una stanza di attrezzi di lavoro, piccolo magazzino, in un angolo è seduta un’anziana. Me la presentano: È la persona che ha dato il terreno per la nuova parrocchia. La sua stanza è ora anche la sacrestia.

Metto piede nella zona dopo 62 anni dal mio primo arrivo a Yaoundé. Ora lungo le strade ci sono case, negozi e magazzini di vendita. Non più spazi verdi naturali, ma spogli degli alberi giganteschi e di quelli pieni di frutta e di fiori. La gente ora veste bene, quella che vedo in giorno di festa e in questa festa straordinaria. Le strade purtroppo, in certe zone, a causa anche dei nuovi mezzi di comunicazione, lasciano molto a desiderare.

Alle 9.30, partendo da sotto a una tenda, la processione incomincia e entra nella cappella baracca, sotto la pioggia abbondante della benedizione dell’acqua santa. I passi sono danza, i canti litanici, ripetuti, gli strumenti musical impazziti. Tutto è caldo, gioioso, in movimento, i rami frondosi nelle mani delle donne coprono teste e fanno circolare l’aria.

Il momento top è l’arrivo del Vangelo. Vedi venire bambini dalla porta centrale, prima i piccoli, poi i più/le più grandi, poi le donne strette in cerchio come per nascondere, proteggere e abbracciare una cosa segreta, importante. Finalmente davanti al celebrante, postosi davanti all’altare, vedi uscire dal cerchio delle donne una vecchia con una gerla sulle spalle. Il celebrante cerca nella gerla, fa uscire rami e foglie e con un cenno di sorpresa e di gioia mostra un libro. In quel momento vedi, senti la folla esultare, danzare, cantare. Tutti con lo stesso gesto, stesso movimento, stessa parola, il vecchio e il bambino, la donna e la bambina. Tutti una sola persona. E tra le parole, la più frequente: «A soya, a soya. È venuto, è venuto!» Nei gesti, nelle cose che si vedono, nei canti non c’è scena teatrale, ma la forte sensazione che in quel momento si incontra si accoglie Lui, Gesù, Luce del mondo, Parola viva, Pane donato.

Forse è la prima volta che quella folla celebra in quello spazio e in quel modo e trovandosi insieme, l’uno accanto all’altro.

Il libro è il Vangelo. Un vecchio libro portato per l’occasione da padre Graziano del PIME che la domenica lascia il seminario di cui è rettore e va ad aiutare il parroco. Lì, nella parrocchia nuova non c’è ancora né messale, né lezionario, ma solo libretti e fogli mensili. È bello vedere l’inizio di una parrocchia con l’aiuto del missionario che si affianca al prete diocesano. Bello se il cammino della Chiesa continuasse tra vecchio e nuovo e col vecchio a fianco.

Le foglie che il celebrante ha estratto dalla gerla sono le stesse con le quali le donne ogni giorno avvolgono il cibo della famiglia: i pani di manioca, di banane bollite, di altri elementi. Le ritroviamo nelle offerte-dono al celebrante, al parroco per i suoi 20 anni di sacerdozio e quanto è portato all’altare.  Fanno pensare al pane e al vino che diventeranno Corpo di Cristo.

C’è un filo che unisce. Il Vangelo viene fuori dalla gerla del lavoro e della vita dell’uomo. Vangelo e lavoro sono la stessa cosa, vanno insieme?

L’omelia in francese e in ewondo (lingua di Yaoundé) è ascoltata in modo diverso. Nella lingua locale, anche se più lunga, l’omelia è dialogo, diventa emozione, gioia. Anche gli occhi partecipano.

Il sindaco della zona manda un ringraziamento al vescovo della diocesi che ha voluto la nuova parrocchia, prendendo una parte della grande di Santa Teresa. Ora, sempre unico corpo di Cristo che continua nei cristiani.

La comunione eucaristica continua nel pranzo a cui tutti partecipano, simbolo del banchetto finale. Sono ormai le 14.30, cinque ore di incontro. Certo, oggi è straordinario, ma è quello che dicono i vescovi Africani: la Chiesa in Africa è Famiglia di Dio.

Il Vangelo nella gerla

Ogni pomeriggio, il villaggio africano è quieto. Al centro, nella casa comune “Abba”, tutta aperta, col solo tetto di frasche e foglie, gli uomini riposano, parlano. Al mattino avevano lavorato ai campi o cercato qualche selvaggina nelle trappole. Anche i cani possono circolare dentro e restarvi liberamente. Può arrivare da lontano un forestiero e trova un posto per sedersi. Si attende il momento per mangiare e bere.

Verso le cinque del pomeriggio, qualche donna esce dalla foresta con la gerla sulle spalle, pesante, piena. Va diritta verso la sua cucina. Poi un’altra, un’altra ancora. Dalle loro cucine arriva qualche odore. Sopra i tetti, i primi fumi. Le donne fanno vivere il villaggio.

Anche il Vangelo, liturgicamente portato nella gerla, ora tradotto nelle varie lingue del paese è frutto di lavoro, di studio, passione, amore della cultura. Accompagnato dalla testimonianza di vita di sacerdoti, missionari, suore, laici, catechisti e cristiani di ogni ceto.

È bello il simbolo dell’arrivo del Vangelo dentro una gerla. In Africa il Vangelo si è trovato di casa, non estraneo, non un pericolo. Non con potenza e ricchezza. Ma nel servizio di amore per tutta l’umanità, ‘pane donato”. Come verità, non nelle parole pronunciate, ma nei racconti di vita dei primi cristiani, della vita dei missionari. In qualche paese, i primi evangelizzatori furono degli schiavi, fieri della libertà portata dal Vangelo. Leggendolo, l’Africa ha ritrovato, capito e dato un senso pieno alla sua vita, ai suoi miti, proverbi, riti. Si potrebbe elencare i numerosi valori africani riconosciuti vicini, dentro il Vangelo. Ne accenno uno:

Un detto africano recita così: «Non esisto io, ma tutti noi». Infatti, uno dei primi valori insegnati ad un bambino africano è il senso dell’appartenenza ad una comunità. Il senso dell’essere “uno del gruppo” è così forte che la persona non conta in quanto individuo, ma in quanto membro di un gruppo. Le comunità africane hanno molto da darci. Oggi in Africa, anche Gesù dice: «Non esisto io, ma tutti noi». Lo Spirito Santo sceso nel pane sull’altare, frutto del nostro lavoro, ci fa vivere tutti Corpo di Cristo.

Ingenui a Yaounde?

Prima che me lo diciate voi, me lo chiedo io. Dopo due anni a Sotto il Monte (BG), ho vissuto un mese a Treviso nella nostra nuova sede, accanto alla Chiesa Votiva, con la continua attenzione e preoccupazione di evitare contagi o di darli, con la mascherina incollata dagli occhi alla barba e le mani sempre lavate, e sentendomi controllato per evitare quello che mi accadde. Una signora con uno sguardo severo, entrando in un negozio mi segnalò che non coprivo bene anche il naso con la mascherina.

A Sotto il Monte, frequente il suono dell’ambulanza e dell’elicottero, e impressionante l’immagine televisiva dei camion che trasportavano le bare dei defunti. Gli ultimi giorni a Treviso furono difficili e sempre con l’incertezza di non riuscire ad avere i documenti sufficienti e validi per poter partire. Dalle due e trenta del mattino del primo novembre sono nel seminario del PIME a Yaoundé (Camerun), dopo una giornata in aereo controllato in ogni passaggio. Sulla documentazione del tampone, ottenuta con l’aiuto di una dottoressa e per grazia ricevuta, potevo sempre mettere il dito sulle lettere PCR e così passare.

Lunedì mattina, primo novembre, ho celebrato la festa dei Santi nella nostra chiesa di Mvog ebanda. Io con la mascherina, il concelebrante senza, nella folla due mascherine. Ieri, in città ho visto gli alunni uscire da scuola, qualcuno con la mascherina. Nei negozi e uffici pubblici, non in tutti, si entra con la mascherina. Chiedo a persone di vario ceto sociale che cosa si pensa. Più di uno mi dice: «Qui il virus non c’è!».

Dalla finestra della mia stanza vedo la gente camminare per strada, numerosa, senza la mascherina. Sto accorgendomi di scrivere con leggerezza su un argomento così tremendo e mondiale. Anche prima di partire, alcuni mi dissero ‘ingenuo’ e peggio. Continuerò a muovermi con la mascherina e pregherò con voi che si sia prudenti anche in Camerun. Sì, uniti nella preghiera!