È pericoloso vivere in Camerun?

Il giornale l’Effort Camerounais del 23 maggio 2019 riporta due notizie spaventose sulla crisi anglofona. Il 20 maggio scorso a Muyuka, nella regione del Sud-ouest, la televisione locale mostrava un neonato appena ucciso e faceva sentire le urla stridenti della mamma che accusava i militari camerunesi di aver sparato mentre si trovava nella sua cucina. Questo crimine è avvenuto all’indomani della visita del primo ministro, che aveva cercato inutilmente di trovare un’intesa tra ribelli ed esercito.

L’altra notizia è  che a Bamenda, capoluogo della regione del Nord-ovest, da qualche giorno, la popolazione non fa che parlare di una testa umana trovata sulla strada davanti a un distributore di benzina nel quartiere Nkwen . Non si conoscono le circostanze nelle quali la persona è stata assassinata. Non risulta conosciuta nel quartiere e neppure facente parte delle forze dell’ordine della zona.

Le due notizie confermano la gravità della situazione che dura già da alcuni anni nella regione anglofona, al punto che Akere Muna, rappresentante del Cercle Belgo-Africain pour la Promotion  Humaine, si domanda: «Il Camerun è diventato luogo dove è pericoloso vivere?».

Rinascita algerina

Il 16 aprile 2019, Marie-France Grangaud che ha vissuto 20 anni in Algeria con giovani diplomati, scrive che finalmente vede un’Algeria nuova. Era desolata per l’indifferenza apparente dei giovani in politica: non votavano, non erano iscritti nelle liste elettorali, manifestavano disinteresse e sfiducia di ciò che avveniva nel Paese. Considerava questo come segno di crescita dell’individualismo. Ciascuno pensava per sé, guidato dall’idea di cavarsela da solo e di arricchirsi a danno degli altri. Anche il prendere la via del mare, col rischio di perdere la vita, era una forma di individualismo. Le vecchie generazioni guardavano i giovani con occhio critico e sfiduciato. Ecco invece che questi giovani, ragazzi e ragazze, in modo inatteso, oggi entrano in azione: partecipano a marce comuni, a discussioni tra di loro e con gli anziani, sulla democrazia e la dignità nazionale. Senza far parte di questi eventi, Marie-France desidera rifletterci sopra perché li trova carichi di valori nella prospettiva del vivere insieme.

«Anzitutto, la gente si parla e si ascolta. Discussioni dappertutto. Nel bus, due persone, una donna anziana e un giovane che non si conoscevano, ragionano dichiaratamente su democrazia, libertà, dignità, cose su cui non sono d’accordo. Ciò che mi ha colpito è che al momento in cui l’anziana stava scendendo, tutte e due hanno riso, contente di aversi parlato e si sono calorosamente salutate.

Secondo: fierezza e rispetto. Gli slogan dei manifestanti sono simili. “Oggi, questo paese, non ho più l’idea di lasciarlo” gridava un giovane. Fieri di essere lì, numerosi, insieme, uomini e donne, giovani e vecchi, con il velo o no, senza nessun atto di violenza o di disprezzo, nel rispetto delle forze dell’ordine (rispetto mutuo), la bandiera algerina sventolante ovunque.

Terzo: humor e allegria. Slogan omogenei, ma pieni di originalità e inventiva, semplicità di canti, cartelli in arabo, francese, inglese, tutti segni di creatività dei giovani algerini. Humor che permette comunanza e facilità di sentirsi semplici, di ridere e di darsi alla fantasia di immagini ed espressioni.

Dopo l’8 marzo, giorno delle dimissioni del presidente, la situazione continua a mostrare la maturità politica dei manifestanti. Un fatto che la dice lunga sull’attenzione e la prudenza dei giovani: correva voce che in occasione del match di due squadre algerine, match sempre molto “caldo” e soggetto a grossi scontri, alcuni facinorosi potessero dar pretesto alle autorità di proibire la manifestazione prevista. Per evitare il rischio, i tifosi hanno dato l’ordine sui social media di disertare lo stadio e questo è stata fatto.  È un evento enorme che dei giovani rinuncino a qualcosa di così importante.

Questi giovani sono il frutto dell’educazione dei loro genitori che hanno trasmesso valori di giustizia, uguaglianza, desiderio di pace e qualità di ospitalità. Questi giovani scoprono ancora la gioia ed esprimono adesione a tutto ciò che è stato insegnato loro nell’infanzia. Ed ecco che i loro genitori, anche se inquieti, avendo vissuto il “decennio nera” e forse la guerra d’indipendenza, si mostrano ora fieri dei loro figli che non esitano a “marciare” in tutti sensi, proprio e figurato, dietro a loro. E non sono persone di ambienti benestanti. Famiglie di quartieri popolari, donne spesso abituate a restare solo tra di loro, sono uscite e hanno “marciato” per sostenere i loro figli. Speranze quindi comuni, speranze di tutto un popolo. In realtà i giovani esprimono le attese di tutta l’umanità.

Oggi l’Algeria prende colore. Lo si vede sui muri, sui passaggi stretti delle scale della città di Algeri. Ragazze e ragazzi disegnano sui muri i loro desideri nei testi in arabo e in francese. Mentre ammiravo queste opere, una coppia con un bambino, vestito secondo la tradizione, mi dice: “È bello, mi piace”. E chiedendo loro se sono d’accordo con gli scrittori, rispondono: “Siamo quarantenni. È per il bambino che agiscono. Costruiscono il suo avvenire”».