La parola e il silenzio dell’arcivescovo di Douala Samuel Kleda

Dal gennaio scorso Samuel Kleda, arcivescovo di Douala, è quasi scomparso dai giornali. Aveva consigliato al presidente del Camerun Paul Byia di ritirarsi per il bene della nazione. Si era decisamente pronunciato sulla crisi anglofona : «Cessiamo ogni forma di violenza e smettiamo di ucciderci – avevano affermato i vescovi nella lettera, firmata dal presidente mons. Samuel Kleda, arcivescovo di Douala  -: siamo tutti fratelli e sorelle, riprendiamo il cammino del dialogo, della riconciliazione, della giustizia e della pace». I vescovi del Camerun chiedono «una mediazione per uscire dalla crisi e risparmiare il nostro Paese da una guerra civile inutile e senza fondamento». 

Dopo le elezioni dell’ottobre 2018, aveva dichiarato che occorreva prestare ascolto anche ai reclami del candidato sconfitto, Maurice Kamto (che ha ottenuto una il 14,23%), secondo il quale il voto è stato inficiato da pesanti irregolarità. Durante le elezioni la Conferenza episcopale camerunese aveva dispiegato 231 osservatori della Commissione Giustizia e Pace, che hanno riscontrato diverse anomalie.

Dopo la morte sospetta di mons. Jean Marie Benoît Balla, vescovo di Bafia, aveva scritto: «Chiedo a ogni persona informata di collaborare con gli avvocati voluti dalla Conferenza episcopale. Abbiamo fiducia nella giustizia. Desideriamo che i nostri avvocati conoscano gli elementi in possesso della gendarmeria e della polizia».

Nel discorso per la Giornata mondiale della Pace (gennaio 2019) aveva scritto: «Un popolo attende dai suoi responsabili la giustizia e il diritto, la verità, la prosperità, l’uguaglianza del benessere per tutti, l’attenzione, il rispetto, la considerazione».

«Viviamo nel nostro Paese il dramma della guerra e della paura: la crisi sociopolitica delle regioni del Sud-ovest et del Nord-ovest; i disastri causati dalla setta Boko-Haram nell’Estremo Nord del nostro Paese; le persone migranti e rifugiate di queste tre regioni e i rifugiati centrafricani nella regione dell’est. (…) Per sradicare dai nostri cuori questi vizi e sradicarli dalla società, dobbiamo cambiare la mentalità, la nostra visione della politica e liberare noi stessi, rinunciando al nostro orgoglio. Dobbiamo interrogarci seriamente : come vincere la corruzione, se essa è diventato il nostro stile di vita, un sistema di governo?».

In gennaio ha rischiato di essere aggredito e colpito. Persone che conoscono l’arcivescovo Samuel Kleda e il Camerun si domandano perché non parla e dicono che non è per paura.

Aiutiamo ancora Ambam


In questi giorni, con cinque diaconi di Treviso e il loro rettore don Giulano Brugnotto, ho rivisto alcuni luoghi di quella vita missionaria e tanti cristiani che non hanno trattenuto la loro gioia di rivedere me e i rappresentanti della diocesi di Treviso. Ho risentito un forte senso di fraternità, di accoglienza, di famiglia, non solo nei miei riguardi, ma anche con tutti i missionari di Treviso e con i trevigiani che sentono la missione di Ambam parte della  loro famiglia. Abbiamo pregato anche sulla tomba di padre Mario Bortoletto, fidei donum di Treviso. La missione vissuta ad Ambam non è solo uno dei momenti della vita. Ci domandiamo: «Chi siamo noi per loro? Chi sono loro per noi?».

Vedo che la missione non è rimasta un’ideologia ma sentita ancora come il condividere in forme concrete la vita storica della gente. Mi domando allora: «Come continuare concretamente a Treviso la missione iniziata nel gemellaggio?». Dentro il senso vivo e concreto di Chiesa-Famiglia di Dio e nella relazione fraterna da continuare con preti e cristiani africani, da vivere anche nella preghiera, resta viva e forte in me la domanda di contribuire ai bisogni concreti della missione. Direi con una frase del cardinale Martini: «L’Africa in questo momento ha grande bisogno di aiuto disinteressato. Un mondo che proceda in unità e corresponsabilità è un mondo che può preparare ai futuri cittadini un modo di vivere più conforme alla dignità umana, con tutte le conseguenze che seguono da tale situazione», (La Stampa del 5 luglio 2009)

Come accompagnare i cristiani che riempiono le chiese di Yaoundé


Domenica scorsa a Nvog Ebanda, seconda domenica di Quaresima, ho sentito l’appello di 34 catecumeni che hanno chiesto il battesimo. Uno è di Yaoundé, gli altri quasi tutti bamileké, etnia dell’Ovest, commercianti.  In questi cinquant’anni di presenza a Yaoundé, durante il lavoro nell’antica parrocchia di Etoudi, abbiamo assistito e contribuito alla nascita di tre nuove parrocchie. Incominciando con la costruzione di una cappella, si dava la possibilità di venire a pregare agli abitanti che continuamente arrivavano e nacquero così le comunità. Ogni anno a Yaoundé ci sono migliaia di nuovi battezzati. Ogni anno qualche parrocchia nuova. Come prepararli, come seguirli? Come stanno vivendo da cristiani? Spesso ci poniamo domande sullo sviluppo della Chiesa.

Mi piace ricordare quando, anni fa, il cardinale Martini disse ai missionari preoccupati e pieni di interrogativi: «In simili frangenti, potresti avvertire il bisogno di tornare alla purezza iniziale, alla radicale serietà della scelta. Forse venite colti da un fastidioso senso di amarezza (“Ho sbagliato tutto”) e desiderate essere di nuovo severi, esigenti, austeri…  Decidete, allora, di eliminare dal vostro approccio missionario ogni accondiscendenza con la cultura locale e con le troppe debolezze dei gruppi umani con cui vivete e ridiventare uomini e donne della legge: niente più matrimoni di prova o in fieri, niente più comprensione della poligamia, niente più bonarietà, o permissività, o approssimazione… Solo Vangelo allo stato puro! Ma è difficile persistere in questo atteggiamento. (…) Mantenere quella posizione di rigidità diventa estenuante, deprimente per voi e per tutti. E allora mollate la presa e “dondolate” dall’altra parte: tornate a essere benevoli, bonari, se non libertari, pazienti, permissivi per poi pentirvi, appena notate nuovi tradimenti del vangelo. Fate come il pendolo: ora tutto da una parte, ora tutto dall’altra. Dove penso possa trovarsi quella che definirei una posizione di “equilibrio evangelico”? Non certo a metà strada tra la rigidezza e la permissività. L’unico luogo in cui un apostolo del vangelo deve situarsi per non ammalarsi della sindrome del pendolo è sul Golgota. Più precisamente sulla Croce. Più precisamente ancora, nel cuore trafitto di Cristo. Piazzatevi lì. E dalla fessura procurata dalla lancia, osservate la vostra gente. Forse vedrete che i più sono molto lontani, ancora alle falde del monte o appena all’inizio del pendio. Continuate a guardarli, a contemplarli. Soprattutto, amateli con la vampa d’amore che arde in quel cuore. Non legatevi troppo a questa o quella tabella di marcia. Non riprendeteli se li vedete salire zigzagando, o se rallentano, o se cadono e si fermano. Una sola deve essere la vostra preoccupazione: che la gente non faccia mai un percorso a ritroso, cioè un cammino che la allontani da quel cuore e da quell’amore. Concedete loro di salire con la velocità di cui ognuno è capace e con le pause di cui necessita. Rispettate il fiatone che molti potrebbero avere. E se cadono, invitateli a rialzarsi. L’importante che riprendano il cammino che li avvicini a quel cuore, che è il centro dell’amore che muove ogni cosa».

Gli antenati non sono morti

Famosa è la poesia di Birago Diop: «Ascolta più spesso ciò che vive,   ascolta la voce del fuoco,    ascolta la voce dell’acqua e ascolta nel vento i singhiozzi della boscaglia : sono il soffio degli antenati.  I morti esistono, essi non sono mai partiti,   sono nell’ombra che s’illumina, e nell’ombra che scende nella profonda oscurità…..».  

Giovanni Paolo II in Ecclesia in Africa, (42 . 43), scrive : «I figli e le figlie dell’Africa amano la vita. Da questo amore deriva la loro grande venerazione per i loro antenati. Credono istintivamente che i morti hanno un’altra vita e il loro desiderio è di restare in comunicazione con loro. Sarebbe forse in qualche modo una preparazione alla fede nella comunione dei santi?».

Nelle due parrocchie dove celebro in questi giorni a Yaoundé, tra le intenzioni di messe domandate, frequenti sono quelle per le “anime del purgatorio”. Ho voluto chiedere ad alcuni cristiani se nelle anime del purgatorio ci sono anche gli antenati. Non mi aspettavo la varietà di risposte e la scoperta di un rapporto ancora vivo con gli antenati.

Varietà di risposte perché ormai a Yaoundé trovi membri delle centinaia di etnie del Camerun e ognuna ha il suo modo di pensare, non solo sugli antenati, ma anche su altri campi della vita. Ma sulla pratica delle Messe per le “anime del purgatorio”, c’è anche diversità di giudizio.                     

1. Le anime del purgatorio soffrono in attesa di raggiungere il Paradiso, preghiamo che Dio abbia misericordia. Dio ha misericordia anche dei nostri antenati.                                          

2. Sono cristiana e credo che oltre al battesimo di acqua c’è anche quello di desiderio. Non so come alcuni abbiano vissuto, ma penso che anche per loro ci sia la possibilità del Paradiso.                 

3. Si dice che quando si riscava la tomba di una persona e la si trova ancora intatta, quella persona è ritenuta santa anche se pagana e la si onora con riti speciali. Mia nonna pagana, che aveva fatto una vita da schiava, venduta da mercato a mercato, è stata trovata intatta. Io continuo a pregare per lei e un giorno la rivedrò in Paradiso.                                                                        

4. Quando arriva un incidente o una disgrazia, si dice che un antenato mostra che non è soddisfatto di come lo si onora. Allora anche i cristiani che credono ancora alle tradizioni, pensano che al posto di un sacrificio per soddisfare l’antenato, si possa offrire una messa. Anche quando chiedono la messa per benefici ottenuti, intendono soddisfare gli antenati con la messa.                                     

5. Sono cristiano di vecchia data, che gli antenati possano farci del male e che debbano essere tenuti in pace e ringraziati, non credo più.                                                                      

6. Semplicemente prego per antenati pagani e cristiani. Dio è misericordioso per tutti.                

 7. Mia madre, cristiana evangelica continua le pratiche per onorare i miei antenati. Io ho dei doveri familiari trasmessimi in segreto da mio padre, ma quelle cose non le faccio più.                      

8. Alcuni cristiani conservano crani, luoghi sacri, pratiche rituali, chiedono aiuto al marabutto ecc.   

9. I giovani non sono più dentro quelle cose.                                                        

10. Un vecchio catechista pensa che abbiamo bisogno di protettori. Aiutando i defunti, antenati compresi, cristiani o pagani, a raggiungere Dio, ce li facciamo protettori.

Circa i trapassati ho trovato questa teoria: «La morte è considerata dagli africani un evento normale poiché chi muore continua a vivere e ad intervenire nella vita dei propri cari; il decesso, infatti, è il passaggio necessario per raggiungere il divino e il mondo degli antenati che ne sono i diretti intermediari».

Sulla celebrazione delle Messe per le “anime del purgatorio”, sento il bisogno di capire meglio. Si tratta di mettere insieme tradizione africana e pensiero cristiano?  Mons. Jean Zoa arcivescovo di Yaoundé nel 1993 aveva detto in una conferenza : «Penso che dobbiamo evitare il sincretismo tra la fede cristiana e il culto degli antenati». E sull’inculturazione mons. Zoa diceva il suo disaccordo sulla situazione pastorale condotta da alcuni preti che proponevano al popolo di Dio solamente attenzioni e iniziative  d’ordine rituale e magico.

Riconosco che ho dovuto superare un po’ di fatica, ma penso di aver raggiunto una soddisfacente idea della positività dell’importanza della presenza degli antenati nella cultura e oggi nella vita dei cristiani africani. Quando si dice: «esiste la forza della natura», penso che l’africano vi vive dentro, continuamente e quando dice :«Sento i miei antenati vivi», non dice solo un’idea, ma dice forza, vita. Il sincretismo accennato da mons. Jean Zoa non riguarda la concezione del rapporto vivo con gli antenati, ma tocca la falsa inculturazione di far rivivere pratiche e riti religiosi poco chiari.

Ascoltando i cristiani che fanno celebrare le messe per le”’anime del purgatorio” vedo che amano  ricordare anche i loro antenati, compresi i non cristiani, semplicemente e soprattutto perché li sentono veramente vivi e volontari della vita, bella, ordinata, dei membri della loro famiglia e discendenza. Celebrare non è solo ricordare ma vivere un contatto vivo. Giovanni Paolo II parla di amore della vita, una vita che resta viva nel contatto con gli antenati che amano la loro famiglia. Si tratta anche di contatto con Dio perché gli antenati sono dei mediatori e sono persone che sono state fedeli a Dio, al loro Dio. Una donna mi racconta: «Mio padre prima di morire volle essere sepolto così com’era, dicendo a noi di non spendere niente. Solo ci ha chiesto di “fare il fuoco£ e di mangiare ogni tanto uniti, in ricordo di lui». E mi ha domandato: «Quando vado al villaggio, posso “fare il fuoco” e mangiare unita ai miei fratelli e ai miei figli?». Prima di rispondere, ho voluto sapere se altri cristiani fanno così e me lo ha assicurato. In realtà, “fare il fuoco” significa “riunire il focolare” attorno alla famiglia unita. Penso che sia diverso da quello che mons. Zoa rimproverava  quando diceva di una inculturazione sbagliata. Qualche catechista dice anche che bisogna stare attenti di capire bene, soprattutto quando per esempio un beti del Sud riferisce sulle “pratiche dei crani” dei bamileké del Sud-Ovest. Non tutti capiscono e accettano le diversità di comportamento religioso di una etnia diversa dalla loro. Spesso il giudizio è negativo.

Per me straniero è necessaria una continua attenzione e prudenza nel giudicare e nel credere di aver capito. Resto quindi d’accordo sulla necessità di catechesi approfondita, come scrive Dominique Banlene Guigbile, vescovo di Dapaong, parlando del Mese Missionario Straordinario dell’Ottobre 2019, annunciato da Papa Francesco:  «C’è una sorta di accumulo di credenze, a volte un sincretismo che è maggiormente visibile nei momenti di grande sofferenza come la malattia e la morte. Spesso la religione è percepita dell’uomo africano solo in una dinamica utilitaristica».

«Una religione è giudicata buona o cattiva a seconda che soddisfi o meno i bisogni dei suoi seguaci. Se non dà soddisfazione, viene abbandonata per altro o viene modificata». «Da qui scaturisce l’attitudine popolare degli africani di aderire a una nuova religione senza rinunciare alle precedenti credenze. La verità della fede cristiana si basa però sul fatto che la fede in Gesù Cristo non supporta aggiunte o amalgami. È una scelta radicale che, pur tenendo conto dei semi del Verbo presenti nelle culture dei popoli, rinuncia a compromessi con tutto ciò che è contrario alla verità evangelica. Bisogna restare umili e comprendere che il cristianesimo vissuto in Africa è talvolta lontano dalla sua realtà e verità fondamentale e richiede un’opera di evangelizzazione molto più profonda. Lungi dall’essere una terra già evangelizzata, l’Africa rimane ancora una terra di evangelizzazione, una terra di missione», conclude. (DZ/AP) (27/9/2018 Agenzia Fides)

Catechesi necessaria anche in Italia

Sul rapporto coi defunti, non solo l’Africa ha bisogno d’essere evangelizzata. Oggi molto di più l’Europa che perde il contatto naturale coi defunti e crede al contatto magico.  Sarà l’Africa ad evangelizzarci, cioè a rimetterci in un contatto vivo con tutta la ricchezza e vitalità della natura, nel senso vero pieno e vivo, comprendendo quanto voluto dal creatore, come Lui vede l’uomo, la sua vita, la relazione con tutti gli esseri. Un mezzo per scoprire ed aprire, sarà l’incontro delle persone, delle culture, delle religioni.

In ricordo di padre Mario Bortoletto

Cari amici, il 9 marzo è il decimo anniversario della morte di padre Mario Bortoletto. Dedico a lui una cartolina.

Questa mattina (2 marzo 2019) il parroco padre Sleeva è in pellegrinaggio con venti cristiani a Ma.an dove è sepolto padre Mario Bortoletto ed è per me una grande gioia celebrare nella chiesa voluta da padre Mario. Il mio legame con lui, fin dalla nostra giovane età di preti, si riaccende di ricordi e di comunione e fraternità sacerdotale. Mi aveva confidato la sua decisione di partire per la missione e l’ho accompagnato durante tutta la sua vita, anche se eravamo a volte distanti. Appena la gente mi vede e mi sente nel mio francese-italiano pensa e racconta di Mario. È ancora vivo dopo dieci anni della sua scomparsa. Chi non ha potuto andare in pellegrinaggio,  era unito ai pellegrini e a padre Mario celebrando la messa. Nelle confidenze profonde che i cristiani mi fanno,  sento che padre Mario è un punto di riferimento per la loro vita spirituale e quotidiana.

Il missionario fidei donum Mario Bortoletto divenne membro associato del PIME e fu confondatore di Ntem-assi, vero esempio di vita sacerdotale e maestro nelle sue prediche coi proverbi ntoumou. L’impegno dell’inculturazione era appena nato dopo il Concilio Vaticano II, quando si introdusse la possibilità di celebrare la liturgia, non più solo in latino, ma anche nella lingua madre di ogni popolo. Padre Mario, dicono gli ntoumou, conosceva la lingua e la nostra cultura meglio di noi. Vi trascrivo due suoi racconti, presi da proverbi ntoumou, ascoltati da un cristiano mentre mi accompagnava a casa dopo la messa.

1. Concorso di bellezza

In gara sono rimasti un serpente con la sua pelle variopinta e movimenti di danza  e un misero verme tutto timido. Il giorno del verdetto finale davanti al giudice della gara, si presenta il serpente tutto nuovo con la pelle dalle scaglie tenere e lucenti. In ritardo arriva il verme, ma volando nel cielo nella sua veste di farfalla bianca. Chiede scusa perché ha tante persone da visitare e consolare. Vince il verme diventato farfalla.       Applicazione di padre Mario : “Il battesimo non cambia la nostra pelle, ma ci fa nuovi e aperti a Dio e al prossimo”. Coglieva nel proverbio non solo un messaggio etico, ma anche e soprattutto catechetico.

2. Unica femmina

In un villaggio di scimmie erano rimaste solo le femmine e una sola con un figlio.  Le femmine erano talmente gelose che incoraggiarono il figlio a uccidere la madre per diventare il re del villaggio. Il figlio uccide la mamma, la fa a pezzi per gettarla nel fiume. Per strada si ingambera, cade e i pezzi della mamma si disperdono dal sacco. Si sente una voce dal cuore : “Figlio, ti sei fatto male”? Il messaggio di padre Carlo: «La mamma continua ad amarci sempre e così è Dio. Anche in situazione di peccato, Dio continua ad amarci».

Raccontandomi, l’anziano commissario di polizia si commuove e dice: «È padre Mario che ci ha fatto uscire dalle tenebre. Qui non c’era nulla!».