Ho rimesso i piedi in Africa e ora mi si chiede di rimettere anche il cuore qui per un servizio pastorale in due parrocchie di Yaoundé, dopo cinquant’anni dal mio primo arrivo. Sì, mettervi il cuore altrimenti non si sta in Africa, come del resto altrove. Ho insegnato storia delle missioni nel nostro seminario filosofico e vivo nella nostra parrocchia di Nko Abang. Vivendo ora in un angolo d’Africa, l’osservo al Sud, al Nord, lo interrogo, leggo documenti di vario genere, faccio confronti, ecc.
Mi è capitato tra le mani il libro Nel
nome del Padre scritto nel 1992 da padre Piero Gheddo con Michele Brambilla
(Bompiani). Padre Gheddo nei suoi viaggi
attraverso il mondo missionario, ha accostato l’Africa non frequentando
gli alberghi Hilton e Sheraton, ma le capanne della gente del posto e le
baracche di preti e suore, tutti avamposti della fede nel mondo. «Il torto del
nostro padre – in questi anni, scrive Vittorio Messori nella prefazione – è
stato di non nasconderlo, ma di metterlo nero su bianco su giornali e libri,
questo divario tra la realtà e gli schemi di confratelli che credevano
all’avanguardia…. Padre Gheddo non ha avuto vita facile, all’interno della
Chiesa medesima… mentre coesistevano certi miti accettati acriticamente…
Sono pagine alle quali il lettore vorrà ritornarci sopra… ne varrà la pena».
Dal capitolo Il continente della
fame: L’Africa, del libro, riporto alcune frasi :
«La mentalità terzomondista
concepisce le culture dei popoli poveri come qualcosa di assoluto, una sorte di
millenarismo fondato sul mito fasullo del ‘buon selvaggio’. Si sostiene che
tutto il male del Terzo Mondo è provocato dall’imposizione della cultura
occidentale, e che le tradizioni locali sono invece il meglio che possa esistere
per quei popoli. Intanto questa è ovviamente una visione “acristiana” della
storia e dell’uomo, che non tiene conto della Rivelazione e del diritto di ogni
uomo a conoscere la Via, la Verità e la Vita».
«L’Africa a mio parere è stata
colpita da due flagelli: il primo, che tutti riconoscono e anzi spesso
enfatizzano, è rappresentato dagli errori di un certo colonialismo egoista. Il
secondo, che pochi vedono, è costituito dall’indipendenza concessa in modo
troppo affrettato, in base a un’ideologia del ‘tutto e subito’ che non teneva
conto della realtà. Ma l’Europa, a un certo punto, è stata invasa da
quest’ondata di terzomondismo che ha causato guai non minori di quanti un certo
colonialismo selvaggio».
Riccardo Cascioli, suo collaboratore della prima ora ad AsiaNews, dopo la sua morte di padre Gheddo, scrive: «Sarà ricordato come un vero modello di autentico missionario: “la missione ad gentes, in fondo, era solo la logica conseguenza della sua passione per Gesù Cristo: non poteva concepire una vita cristiana che non si concretizzasse nel desiderio di comunicare Cristo a tutti gli uomini. Da qui tante delle polemiche che ha dovuto sostenere nella sua vita con chi tendeva sempre a ridurre la missione a opera sociale, a “promozione umana” che andava di moda dire. Resta una provocazione per tutti noi».
Ora, trovandomi ancora in Africa, e leggendo l’esperienza di Gheddo, raccolta nel libro del 1992, e accostandola a quanto vedo oggi, soprattutto come missionario e pastore, usufruendo di tanti incontri e relazioni con un po’ di esperienza, mi sento d’accordo non solo sulle sue riflessioni, ma soprattutto sul suo essere missionario. Papa Giovanni Paolo II aveva chiamato lui a scrivere la Redemptoris Missio, il più importante e attuale documento della Chiesa in campo missionario, perché aveva unito, nella sua vita, le vocazioni del missionario e del giornalista.