Non alla “cultura della paura” e alla xenofobia

Invito a leggere una parte del testo integrale della prima prolusione del card. Gualtiero Bassetti, presidente dei vescovi italiani, in apertura dei lavori del Consiglio permanente della Cei (Roma, 25-27 settembre 2017).

Accogliere i migranti è un primo gesto, ma c’è una responsabilità ulteriore, prolungata nel tempo, con cui misurarsi con prudenza, intelligenza e realismo. Non a caso il Santo Padre, di ritorno dalla Colombia, ha ricordato che per affrontare la questione migratoria occorre anche «prudenza, integrazione e vicinanza umanitaria». Tale processo va affrontato con grande carità e con altrettanta grande responsabilità salvaguardando i diritti di chi arriva e i diritti di chi accoglie e porge la mano.

Il processo di integrazione richiede, innanzitutto, di fronteggiare, da un punto di vista pastorale e culturale, la diffusione di una «cultura della paura» e il riemergere drammatico della xenofobia. Come pastori non possiamo non essere vicini alle paure delle famiglie e del popolo. Tuttavia, enfatizzare e alimentare queste paure, non solo non è in alcun modo un comportamento cristiano, ma potrebbe essere la causa di una fratricida guerra tra i poveri nelle nostre periferie. Un’eventualità che va scongiurata in ogni modo.

Infine, alla luce del Vangelo e dell’esperienza di umanità della Chiesa, penso che la costruzione di questo processo di integrazione possa passare anche attraverso il riconoscimento di una nuova cittadinanza, che favorisca la promozione della persona umana e la partecipazione alla vita pubblica di quegli uomini e donne che sono nati in Italia, che parlano la nostra lingua e assumono la nostra memoria storica, con i valori che porta con sé.

Accogliere Papa Giovanni col cuore nuovo

Turoldo era convinto che Giovanni XXIII continuava a essere vivo più di quanto non si pensava, non solo vivo nella devozione popolare – segno di quanto il popolo ci tenga ai suoi santi… – ma vivo nella cultura e nella storia. E ricordava che il Papa il giorno dell’apertura del Concilio, diceva che quanto stava avvenendo era “appena un’aurora.

Oggi quindi, durante l’attesa della venuta del santo Papa Giovanni a Sotto il Monte, potremmo impegnarci a conoscere meglio la pagina evangelica che ci ha donato con la sua vita e la pagina che ha aperto per un nuovo volto della Chiesa e del mondo intero. Prepararci anche interiormente per cogliere il suo desiderio di vederci veri discepoli di Cristo Gesù.

Ero a Yaoundé, capitale del Camerun, per preparare con un gruppo di laici la venuta di Papa Giovanni Paolo II. Fuori del nostro locale, un ammalato di mente ci disturbava col suo vociare. Mi sedetti accanto a lui e gli dissi: «Tu sai che sta arrivando a Yaoundé un grande personaggio. Tu cosa pensi? Come dobbiamo accoglierlo?»  L’ammalato si calma, si fa serio e poi dice, solenne: «Un tipo così, lo si accoglie con un cuore puro!».

Per prepararci ad accogliere Papa Giovanni ho cercato nel Giornale dell’anima un suo pensiero sul cuore per immaginare come desidera essere accolto e ho trovato: «Gesù mite e umile di cuore, fa che il mio cuore sia d’accordo col tuo». E ancora: «Crea in me un cuore puro e uno spirito saldo. Il cuore è la volontà e lo spirito è l’intelletto. Volontà monda, adunque, occorre, e intelletto rinnovato. Ohimè, quanti attacchi, quante tentazioni assediano la volontà, specialmente dalla parte del sentimento: oggetti, persone, circostan­ze! Il fascino dell’ambiente, talora l’incontro fortuito, la mettono a dura prova. Da sé il cuore non regge. Quando poi si è sciupato, lasciandosi infiacchire dalle superfluità, è necessaria una creazio­ne novella. Rattoppi valgono poco. Presto si torna alla caduta. Il cuore di Paolo, il cuore di Agostino, furono creazione nuova».

E Papa Giovanni che cosa ci dirà e che cosa ci porterà?

Ho trovato in un libro questo grazioso racconto scritto da monsignor Scavizzi: «Nel vaporetto, alcuni veneziani commentano il discorso che il patriarca Roncalli, appena arrivato, aveva pronunciato il giorno del suo arrivo: “Non ha detto cose grosse e difficili, a ha parlato col cuore. Ma il più bello è stato quando ci ha detto che, non potendo darci ricchezze materiali, ci dava la sua unica ricchezza, il cuore, l’amore di padre, senza limitazioni”».

Papa Giovanni ci porterà il suo cuore!

 

 

Che cosa significa “Bosa”?

Negli articoli sui migranti di Avvenire leggo: «Le difficoltà sulla tratta libica spingono tanti a prendere un percorso alternativo. L’enclave spagnola in Marocco è la nuova via. Il “muro” e le retate non fermano i migranti. Ci ha messo sette mesi per arrivare dal Camerun a Benyunes, distesa di gole e boschi fra Tangeri e Ceuta dove i subsahariani si nascondono in attesa di provare a scavalcare. E, ora, crede di avercela fatta. “Bosa”, si dice nella lingua africana fula: così gridano i migranti al toccare l’enclave spagnola. “Bosa”, ripete Dominique, 19 anni dichiarati, molti di meno a vederlo, mentre mangia riso e salsa piccante – il suo piatto preferito – insieme a Luigina, Carmen, Gloria e Paloma, le quattro Piccole sorelle di Gesù che, nel quartiere periferico di Hadu, hanno creato un’oasi per gli scartati della globalizzazione. Il loro appartamento – modesto e, al contempo, curatissimo – è aperto h24 per chi ha superato la “valla” e ancora non sa che, dopo sei-sette mesi al Centro di permanenza temporanea (Ceti) di Ceuta, avrà un biglietto per un centro di espulsione nella Penisola. Da cui, nella peggiore delle ipotesi, uscirà per essere rimpatriato».

Che bella sorpresa per me leggere la parola Bosa e vederla tradotta Vittoria  in qualche articolo, come anche in quello di Lucia Capuzzi “Qui non siete corpi estranei” sulle Piccole Sorelle di Gesù. Può darsi che la traduzione sia giusta. Ma per anni nel Nord del Camerun e in Ciad, ho interrogato tupuri, foulbé (detti fula in altri Paesi), massa e guiziga che usavano la stessa parola per poter tradurla in francese o in italiano e non ero arrivato a una conclusione. Ero giunto solo a questo: «Sei tu, fa tu», intendendo la loro divinità.

Nella mia vita di missionario, a contatto con tanta gente di culture e religioni diverse, continuavo a cercare di capire il significato di certe parole. Alcune parole di una lingua diversa dalla tua, sono intraducibili soprattutto quando sono cariche di sentimento e di fede.

Ricordo l’emozione vissuta dopo aver accompagnato a casa un camerunese che ritornava da sua madre dopo anni di vita in Gabon. Nel totale silenzio, la madre si era stesa a terra, e alzava per tre volte le mani verso cielo dicendo: «Bosa, Bosa, Bosa!».

Come il padre del bambino appena nato che secondo la sua tradizione, per tre giorni, mattina, mezzogiorno e sera si reca su un’altura e presenta il bimbo al cielo e dice: «Bosa, Bosa, Bosa!». O la gente che in momenti forti, come trovando l’acqua, o dopo la morte a causa un fulmine, o alla nascita di un figlio, grida: «Bosa, bosa, bosa!» per dire, (penso io): «Sei tu che fai, sei tu».

Il camerunese Dominique arrivando a Benyunes ha gridato: «Bosa, Bosa, Bosa!». Non credo abbia voluto dire solo «Vittoria !». Penso abbia detto: «Sei tu che fai, sei tu». Sarei contento se qualcuno mi trovasse un’altra traduzione.

Il senso della presenza e dell’azione del trascendente accompagna e riempie ancora tutta l’esistenza di molti popoli e questo diventa una testimonianza e può accomunarci.