Libia e Algeria, “trappole” per migranti

«Le guardie carcerarie uccidono la gente e la gettano in una buca. Chiudono la buca soltanto quando è piena di corpi». È il racconto di un migrante salvato domenica scorsa dalla nave Aquarius della Ong internazionale Sos Mediterranée. A descrivere le torture a cui sarebbero sottoposti coloro che attendono di partire per l’Europa è stato un camerunense di circa 20 anni. «Tutte le persone che vedete qui – ha detto facendo riferimento agli altri sopravvissuti – sono passate attraverso tante prove, sono morte dentro da molto tempo, anche le loro famiglie devono credere che siano morti. Oggi è come una resurrezione».

Sulla scia di questi racconti, la Ong lancia l’ennesimo appello all’Unione europea, affinché non riduca le proprie responsabilità nel Mediterraneo. Il riferimento va agli accordi che sono stati fatti con la guardia costiera libica per il controllo dei propri confini territoriali e il contrasto all’attività dei trafficanti. Secondo molti, infatti, le autorità libiche al momento non sarebbero un interlocutore all’altezza per la gestione della situazione.

Negli ultimi mesi l’Algeria ha intensificato i rimpatri di immigrati regolari provenienti dall’Africa subsahariana. Ma il contesto di queste operazioni è una campagna xenofoba condotta da alcune autorità e dai media.

Il Sahara non è mai stata la destinazione finale dell’immigrazione proveniente da sud, ma negli ultimi anni le città del deserto algerino sono diventati snodi importanti della rotta che conduce verso l’Europa, dai quali transitano molti migranti provenienti dall’Africa subsahariana. Un flusso che ha innescato tensioni razziali fra i nordafricani di cultura araba e i neri, con numerosi attacchi nei confronti di questi ultimi in tutta l’Algeria.

Lo scorso luglio, durante un’intervista al canale televisivo Ennahar, Ahmed Ouyahia, ministro e direttore di gabinetto della Presidenza, ha dichiarato che i migranti che risiedono illegalmente in Algeria sono «l’origine del crimine, della droga, e delle malattie». Questa volta, il nuovo presidente della Commissione nazionale algerina per la promozione dei diritti umani Noureddine Benissad ha condannato le parole di Ouyahia affermando che un migrante «non è un delinquente o un criminale o un propagatore di malattie», dimostrando così un cambiamento di rotta rispetto al suo predecessore. Ma la “patologizzazione” dei migranti neri, come la chiama Hagan, non si è fermata e scava un solco sempre più profondo fra il Nord Africa e l’Africa subsahariana, cavalcando una retorica di un’area separata del continente “pulita e vergine” che ha bisogno di proteggere sé stessa da una “vile”, e “infettiva”, Africa nera.

 

 

Affascinati dalla morte

«Quello che ci fa paura nel terrorismo islamico non è la violenza ma il fascino per la morte di chi si immola. Sono persone che amano la morte». Lo ha affermato Olivier Roy, docente dell’Istituto universitario europeo, intervenendo all’incontro “Tra nichilismo e jihadismo: la sfida di ricostruire la civiltà nello spazio pubblico” svoltosi al Meeting di Rimini, la scorsa settimana.

«Il fondamentalismo religioso non è niente di nuovo – ha spiegato l’intellettuale francese – ma è nuovo l’attentato suicida in nome della religione. Circa il 25% dei volontari occidentali – ha proseguito – vanno a fare la jihad in Siria e sono convertiti. La maggioranza dei giovani terroristi non ha una conoscenza religiosa.  C’è una sorta di mancanza di integrazione sociale in loro. I giovani rimproverano ai genitori di essere cattivi mussulmani e rifiutano l’islam dei genitori. “Cancellano la storia”, rifiutano la cultura, qualsiasi tipo di cultura, anche musulmana – ha aggiunto -. L’elemento principale della loro azione è che tutti muoiono, dal 1997/2000 quasi tutti si uccidono o si fanno uccidere. Per lottare contro questo nichilismo – secondo Roy – bisogna non lasciare la religione nelle mani dei radicali e offrire uno spazio di spiritualità all’interno di una società profondamente laicizzata».

Metà del Cielo muove il Cielo

«Sarà quel che sarà, ma l’aggettivo “impossibile” ha perso la prima sillaba». Così Umberto Folena chiude il suo articolo su Avvenire del 24 agosto 2017 : L’altra metà del cielo che costruirà la pace.

Alisa Eshet Moses è ebrea. Gadir Hani è araba. Entrambe vivono in Israele. Sono esponenti di spicco di WWP, Women Wage Peace, il movimento per la pace a cui aderiscono ventimila donne ebree, musulmane e cristiane. «Diventeremo 6, 7milioni, dice Eshet, e non potranno ignorarci». Che cosa vogliono queste donne? Eshet, isreliana con madre nata in Marocco e padre nato in India, dice chiaro: «Vogliamo diventare una lobby e fare azione per influenzare la politica obbligandola alla pace». Sono sognatrici capaci di realismo, sognatrici con obiettivi chiarissimi. «Siamo  di destra e di sinistra… ma tutte attraversate dall’identico malessere.  Vogliamo offrire occasioni di incontro a chi non si è mai incontrato per incominciare a scoprire  gli elementi comuni alle nostre fedi  e dimostrare quanto sono vicine. Il cambiamento sarà graduale, passerà dalle scuole, ma ciò che unisce le donne è il bene più grande: la pace. Non siamo d’accordo su tutto, ma possiamo, dobbiamo dialogare. Stiamo creando una nuova “lingua di pace”, che ci permette di parlarne, discuterne, cercare di risolvere i problemi senza ricorrere alla violenza. Riuniamo le donne e abbattiamo i muri tra noi».

Sono donne, mogli e madri. Eshet racconta la sua angoscia, le notti insonni mentre la figlia soldatessa è in guerra. «Ci hanno sempre escluse dai negoziati.  Ma quando saremo tante, tantissime, non potranno ignorarci. Nel nostro movimento il 20 per cento è fatto di uomini. Ma a comandare, siamo noi donne».

Sarà quel che sarà, ma l’aggettivo “impossibile” ha perso la prima sillaba.

Le donne dell’articolo fanno pensare alla figlia di Israele, Maria, e alla Cananea che hanno aiutato Gesù a dare gioia e a liberare dal male. Due donne della Metà del Cielo che hanno mosso il Cielo.

 

Un musulmano scrive trenta lettere a padre Hamel

Mohammed Nadim, franco-algerino, al prete ucciso ai piedi dell’altare da due giovani musulmani di 19 anni, scrive: «Dove siamo, padre mio, dove siamo? Non sappiamo più dove andare… quale direzione prendere. Sono venuti con un grande vuoto nel cuore e l’hanno riempito di un progetto a lungo fermentato nel loro spirito, proclamando alto e forte di amare Dio e il suo profeta».

Nadim è prostrato, impotente, rivoltato davanti alla violenza commessa in nome di una religione che è anche la sua. Musulmano praticante vuole dichiarare il suo malessere, la sua collera, e condividere le sue domande di fede, vita, amore, martirio e difficoltà di vivere insieme. Mons Lebrun, arcivescovo di Rouen, nella prefazione al libro delle lettere scrive: «Mirabile cammino spirituale, non ancora concluso».

Di Nadim, non sappiamo niente. Le lettere le ha scritte da Timimun, oasi dell’Algeria del Sud. Frequenta e conosce la Chiesa attraverso gli scritti di Agostino, i suoi martiri, Popieluszko assassinato in Polonia, Romero ucciso durante la messa in Salvador e i sette monaci di Tibhirine. Alla loro memoria vorrebbe costruire un ospedale o un orfanatrofio, qualcosa che accoglie, che protegge…

Scrive con rabbia: «Ho un sentimento di rivolta, che non amo, ma che mi resta dentro insieme alla paura… di non fare il gesto che devo fare, di non dire la frase che devo dire». Ma accetta di lasciarsi attraversare da questi movimenti interiori contradittori. Poetiche… queste meditazioni si trasformano in preghiere d’intercessione per padre Hamel e la sua famiglia. Domanda perdono in nome degli uomini, non in nome della sua religione, loda pure tutti quelli che in seno alla Chiesa restano capaci di tenere in tali circostanze un discorso di pace bello e generoso.

Conclude: «Padre mio, non fate attenzione a questa storia, non cambiate le vostre abitudini e lasciatevi invadere da sogni meravigliosi (…). Crede di aver preso la vostra vita e forse ha sorriso davanti al sangue, forse… ma già da tempi lontani, da secoli, da mille anni, la vostra vita l’avevate già data ai vostri fratelli, alla Chiesa e a Dio».

Il cardinal Tettamanzi come Papa Giovanni

È bello accostare a Papa Giovanni l’emerito arcivescovo di Milano, il cardinale Dionigi Tettamanzi. È ricordare quanto erano immagini vicine tra loro e di Gesù di Nazareth, come lo definì il card Scola: «Testimone fedele di Gesù». È ricordare quanto ci hanno toccato in alcuni momenti della nostra esistenza. È renderli ancora vivi, l’uno accanto all’altro.

La giornalista Annamaria Braccini ci dice su Avvenire : «È stato facile voler bene a Tettamanzi». Ecco alcune testimonianze nel suo articolo: «Per me, era una persona buona sostanzialmente e semplicemente, dice Paolo, impiegato di mezza età. E’ un poco come Papa Giovanni XXIII. Penso sempre a quella frase : “Quando tornerete a casa, fate una carezza ai vostri bambini”. “Mi pare che sia giusto definirlo Il cardinale delle mani. Quando veniva nelle nostre parrocchie, si fermava a stringere la mano a tutti. Mi ha stretto la mano e mi ha rivolto qualche parole al termine della Messa».

Nel suo lungo telegramma, Papa Francesco lo ha chiamato «amato e amabile».

In una bella lettera alle famiglie nella prova, dal titolo Eppure tu vedi l’affanno e il dolore, il cardinale Tettamanzi terminava con la preghiera: «Quante famiglie, Signore, vivono ogni giornata fin dall’inizio, come una lotta e un affanno… Eppure tu, Signore, non hai chiuso gli occhi, … non sei assente, Signore. Manda il tuo Spirito Consolatore …. perché nessuno si senta abbandonato o dimenticato».

Il Signore non chiude mai gli occhi, non è assente. Ci ha mandato Papa Giovanni, ci ha mandato il cardinale Tettamanzi. Sentiamoli ancora vivi, vicini.

L’Algeria rimpatria i migranti, ma potrebbe anche integrarli

«Per far fronte al fenomeno dell’immigrazione irregolare e lottare contro le reti della tratta della persone, le autorità algerine hanno deciso, in stretto coordinamento con quelle nigerine, la ripresa dal primo agosto, delle operazioni di rimpatrio dei cittadini nigerini in posizione irregolare in Algeria», ha annunciato il portavoce del Ministro degli Affari esterni algerino, Benali Cherif. «I rimpatri – ha aggiunto Cherif – fanno parte di una serie di misure prese dal governo algerino per rafforzare la collaborazione con i Paesi dell’Africa subsahariana, in particolare Niger e Mali, per frenare il flusso delle migrazioni irregolari che il nostro Paese sta affrontando».

In Algeria arrivano diversi migranti in posizione irregolare, provenienti da Paesi dell’Africa subsahariana, in particolare da Niger, Mali e Burkina Faso. Non vi sono statistiche ufficiali dei migranti sub-sahariani in Algeria. Secondo alcune stime sarebbero circa 100 mila.
Alcuni di loro cercano lavoro in Algeria, altri sono invece in transito verso l’Europa, attraverso la Libia. Le autorità algerine rinviano i migranti nigerini nel loro Paese con convogli di autoveicoli. Il campo di Dar El Beïda, alla periferia di Algeri, è stato smantellato.

Il primo ministro Abdelmadjid Tebboune ha annunciato un piano per integrare i migranti nel settore agricolo e delle costruzioni. Molti impresari e proprietari algerini vivono già questo tipo di “ospitalità” e non approvano il rinvio al loro Paese di gente da cui traggono vantaggio. Altre persone influenti, invece, criticano la proposta di integrazione perché vedono nei migranti un pericolo per la sicurezza del Paese.