La pienezza dell’insieme dell’umanità

Con gioia ho trovato questo scritto del cardinale Carlo Maria Martini nel suo libro Colti da stupore. Incontri con Gesù : «La grande rivelazione che ci attende nell’eternità sarà quella di un unico corpo dei salvati di tutte le genti che faranno unità con Cristo in Dio così come prega Gesù nel Vangelo di Giovanni: siano come noi una cosa sola, io in loro e tu in me. (…)  Siamo in attesa di questo traguardo finale e puntiamo tutto su esso. Non sarà semplicemente una glorificazione dei singoli e delle loro virtù, ma la pienezza dell’insieme di tutta l’umanità: una cosa sola con Dio Padre piena di meravigliosa trasparenza reciproca».

Ero arrivato a Touggourt (Algeria) e avevo fatto dipingere su un quadro una copia del mio logo, disegnatomi a colori da Bruno Maggi, grafico del Pime.

La colomba è la scritta Salam, che vuol dire Pace, e le scritte in arabo hanno la traduzione: “Con te sulla terra. Con te in Cielo”.

Gli amici di Touggourt, vedendo il quadro, dondolavano la testa e per parecchi mesi alcuni avevano il coraggio di dirmi: «Con te sulla terra è bello, ci capiamo. Ma con te in Cielo… Non siamo tanto d’accordo». Qualcuno mi disse anche : «No, perché tu non preghi come noi». Rimasi a Touggourt dieci anni e ormai ci volevamo bene. Quando partii, parecchi mi salutarono dicendo: «Arrivederci in Cielo».

È bello per me pensare di rivedere un giorno nello stesso Paradiso tante persone incontrate nei miei anni vissuti in Africa, Algeria compresa, e che, sento, saranno contente di rivedermi.

Il cardinale Martini ha ragione di dire: «Nell’eternità ci sarà un unico corpo di salvati di tutte le genti e che faranno unità con Cristo».

 

 

Olivier Roy: «Proteggiamo il terreno spirituale delle religioni»

Nel quotidiano Avvenire dello scorso 14 febbraio, troviamo l’articolo Daesh il fascino della violenza, scritto da Stefano Pasta, che ci aiuta a capire il fenomeno dei terroristi provenienti dal mondo islamico. La loro appartenenza a gruppi estremisti e radicali e le loro azioni terroristiche sono oggi segno di un vuoto di valori, non tanto di comportamento e di espressione di religione islamica.

Stefano Pasta scrive: «Per Olivier Roy, il grande orientalista e politologo francese, occorre deculturalizzare la lettura del jihadismo europeo. Nelle biografie dei giovani radicalizzati – sostiene – si riconosce la rivolta generazionale come chiave interpretativa: non è una radicalizzazione dell’islam, ma un’islamizzazione del radicalismo».

In Francia i terroristi sono al 90% seconde generazioni o convertiti: «Hanno rotto i ponti con i genitori e con tutto ciò che rappresentano in termini di cultura e religione. I giovani scelgono la causa jihadista perché oggi, sul mercato, è l’unica al tempo stesso globale e radicale. Con un linguaggio moderno, Daesh è riuscito a costruire una grande narrazione basata su un’estetica della violenza che affascina molti giovani; infatti nel terrorismo degli ultimi anni il suicidio è sempre più centrale. Oggi essi islamizzano il proprio disastro personale, la propria rivolta contro la società. Per combattere il terrorismo, occorre proteggere il terreno spirituale, riconoscendo la pratica religiosa nello spazio pubblico. Occorre che si possano costruire le moschee, che siano riconosciute e rientrino nello spazio pubblico, facendo parte della vita della città. Un buon accordo è quello firmato nel 2016 tra la moschea e il Comune di Firenze. Va nella giusta direzione anche l’accordo d’inizio febbraio tra il Ministero dell’interno e gli esponenti musulmani: non entra nel piano teologico, rispettando i principi dello Stato laico, ma pone il problema della lingua”.

Allora oggi non dobbiamo vedere il terrorismo come espressione religiosa dell’islam, ma come un impoverimento del religioso che porta alla radicalizzazione. Se accogliamo in Italia i musulmani, possiamo e dobbiamo aiutarli a mantenere e a continuare a vivere dentro i loro valori. Non diventeranno terroristi, ma “Fratelli”, come li chiama Papa Francesco. È un’occasione difficile, ma provvidenziale.  Rileggiamo Olivier Roy: “Occorre proteggere il terreno spirituale, riconoscendo la pratica religiosa nello spazio pubblico”».

 

Marocco: mai più condanne a morte per chi abbandona l’islam

In Marocco, chi vuole uscire dall’Islam, non rischia più la condanna a morte. Il Consiglio superiore degli Ulema, massima autorità religiosa del Paese, apre alla possibilità di conversione ad altre religioni. Ne dà notizia il sito Morocco World News. Secondo le regole in vigore in tutti i Paesi musulmani, l’apostata è condannato a morte. È vietato anche fare proseliti tra i fedeli di Maometto, se si è di altre confessioni. Ma la fatwa degli Ulema marocchini intitolata “La via degli Eruditi” supera uno dei nodi cruciali dell’Islam, in linea con un paese che rispetta da sempre il pluralismo religioso e che, per volere del re Mohammed VI ha deciso di muovere guerra all’estremismo.

Così alcuni giornali mercoledì scorso, 8 febbraio 2017. Il giorno dopo, solo qualche giornale continuava a commentare la notizia. Nel Corriere della Sera, Renzo Notoli ha scritto: «La questione della pena per chi abbandona volontariamente l’islam è tutt’altro che chiara ed esplicita nel Corano e nella tradizione islamica». Gli altri giornali non ne parlano più: notizia usa e getta”.

Sarà interessante seguire la situazione del Marocco e di altri Paesi per capire bene il cammino di tante persone nella globalizzazione attuale di convivenze, incontri, scambi di ogni genere. Non si tratta solo di “conversioni”, ma soprattutto di ritorni profondi a riscoprire le radici e le ispirazioni profonde delle religioni. Papa Francesco nella capitale della Bosnia Erzegovina ha detto: «Il dialogo interreligioso, prima di essere discussione sui grandi temi della fede, è una conversazione sulla vita umana».
In questo momento, il fenomeno è vasto e profondo. Nella rivista “Mondo e Missione” (marzo 2015) nell’articolo “Il Corano rivisto dalle donne”, leggiamo: «Di fronte alle sfide, spesso drammatiche, dell’attualità, molte teologhe musulmane portano avanti un’opera di interpretazione e attualizzazione dei Testi sacri. Perché “il vero problema è l’ignoranza”, come spiega l’iraniana Shahrzad Houshmand. Stiamo attraversando un momento buio, affrontiamo eventi che ci spiazzano, eppure il Corano ci ricorda che – sempre – laddove c’è una difficoltà, proprio lì si annida una “facilità”, ossia la possibilità di un’evoluzione positiva».

Ines Peta, martedì 7 febbraio 2017, nella rivista Oasis scrive: «Il Corano non prescrive alcun castigo terreno per chi abbandona l’islam, rimandando all’aldilà la punizione di Dio». Nel suo articolo interessante riporta il pensiero dell’egiziano Ahmad Subhî Mansûr (n. 1949) che nel suo testo Hadd al-ridda analizza il concetto di “apostasia”. Tale diritto – avverte Mansûr – spetta però soltanto a Dio: né il Profeta né tantomeno i credenti possono giudicare la fede altrui, come mostrano chiaramente i versetti coranici riguardanti l’atteggiamento da adottare nei confronti dei diversi gruppi umani: ahl al-Kitâb (“gente del Libro”, ossia sabei, ebrei, cristiani), mushrikûn (“politeisti”) e munâfiqûn (“ipocriti”).

Una buona conoscenza delle diverse religioni, ci permetterà di capire, dialogare, riuscire a condividere il cammino della nostra esistenza ormai comune.

 

Migranti e studenti in Algeria

Mons. Claude Rault, vescovo di Laghouat-Gardaia, diocesi nel deserto dell’Algeria, vasta più di due mila chilometri quadrati, nell’ultima riunione della Conferenza episcopale della regione nord-africana (Cerna), tenutasi in Senegal nel gennaio scorso, è ritornato sull’importanza della presenza di studenti e di migranti subsahariani per la vita della Chiesa nell’Africa del Nord e particolarmente dell’Algeria. «Essi sono una preoccupazione della Chiesa. Cerchiamo di conoscere le loro identità e di visitarli con giornate di condivisione. Ad Algeri, Costantine e Orano, gli studenti subsahariani sono numerosi e cerchiamo di integrarli con sessioni di formazione perché conoscano la società algerina. Sono una bombola di ossigeno per la nostra Chiesa e con la loro vitalità portano un aspetto di novità e di giovinezza oltre a renderla universale. Annualmente ci sono delle grandi riunioni simili a quelle di Taizé, e animate da focolarini a Tlemcem e poi un’altra a Skigda e la settimana di “Università d’Estate” nella casa diocesana di Algeri.

La Chiesa non si occupa solo degli studenti. I migranti in transito sono una parte importante della Chiesa del Nord dell’Africa e di alcune parrocchie. A Tamanrasset, dai 20 ai 50 fedeli che frequentano i momenti di preghiera, sono migranti. La migrazione diventa una sfida e un’occasione stimolante  per la Chiesa che estende i suoi confini e vive la sua missione di evangelizzazione e di carità. Purtroppo alcuni migranti sono illegali e soggetti a essere sfruttati, arrestati, imprigionati e rispediti ai paesi di origine. La Chiesa di Algeri collabora col ministero della giustizia e ha organizzato una equipe pastorale di trenta persone, laici, preti e religiosi/e che visitano i carcerati e li aiutano a tenere contatti con le loro famiglie lontane».