Conversione di sguardo

Chiamati a rileggere la nostra vita di condivisione con un popolo per noi nuovo e diverso, ci accorgiamo che è anche necessaria una conversione. Siamo invitati a posare un altro sguardo sulla nostra Chiesa – Chiesa presente, Chiesa dell’amicizia, Chiesa della conversazione – e sulle persone con le quali viviamo.
Anzitutto uno sguardo ai segni dei tempi, non solo sul negativo ma sul bene. Cercare di vedere come lo Spirito lavora nella speranza ancorata profondamente nel cuore dell’umanità. L’algerino di fama mondiale Albert Camus diceva: «Negli uomini c’è più da ammirare che da disprezzare».
Le nostre esperienze inserite nella realtà attorno a noi ci confermano in uno sguardo benevolo e riconoscente, fatto con bontà e bellezza e a vivere la vicinanza e il dialogo con l’altro nella sua differenza. E sono le differenze che ci avvicinano e fanno cambiare lo sguardo. La testimonianza che diamo come stranieri può parlare anche se è comunicata solo con segni e gesti silenziosi, ma con senso contemplativo e profondo nell’interiorità della vita donata. La testimonianza è difficile da valutare, ma è il segno visibile che lascia tracce nella vita.
Poi c’è la speranza gioiosa, la caratteristica del discepolo autentico. La speranza ci rende attenti ai segni della venuta del Regno di Dio. Gesù ne parla spesso e ognuno può trovare il modo per farlo venire. Quale speranza per noi oggi? In che cosa mi sento chiamato a servire il Cristo in un Paese a grande maggioranza musulmano come l’Algeria? Questa speranza è quella promessa dal Cristo Risorto per noi e per la moltitudine. Una speranza dentro un cammino da ripensare, da cercare… Certo, anche in seno alla comunità cristiana ci sono differenze di origine, cultura, età e lingua. E tutto ciò ci mantiene uniti. La comunità è rimessa continuamente in valore, diventa grazia per cristiani e musulmani. Arrivando in Algeria, molti trovano la sorpresa della diversità in seno alla famiglia cristiana solidale. Tensioni, difficoltà e stanchezze sono superate dal ricordo dell’unità vissuta. Nel Cristo vivente tra noi, una profonda comunione è possibile.

Il ponte del cuore

Papa Francesco dice che servono ponti non muri. Uno dei ricordi dei miei primi giorni in Algeria è l’impressione vissuta quando ho passato alcune ore in una famiglia algerina. Ancora tutto confuso per il cambiamento di vita, non solo mi sono sentito accolto con cordialità, ma vivevo la sorpresa di non sentire una grande differenza tra il mio ambiente italiano e quello della famiglia che mi accoglieva, e di sentirmi come a casa mia.
Non dimentico le stesse impressioni quando venivo accolto in Camerun dalle famiglie cosiddette “pagane” e anche poligame, che vivevano un calore umano tra marito, moglie, mogli, e figli…
Poi col tempo, cresceva la conoscenza delle diversità, ma soprattutto lasciavo il cuore esultare quando coglievo momenti di vicinanza.
Vi racconto alcune “rose di sabbia”, testimonianze colte in Algeria che mi confermano nella vicinanza profonda dei cuori, più profonda delle diversità di religione e cultura.
Lui va al lavoro, a fare il pane. Io vado a pregare con le Piccole Sorelle. Ci incrociamo ogni mattina e ci diamo il saluto del buon mattino Sbah Kair, Sbah Nour (mattino di bene, mattino di luce). Dopo alcuni giorni, frena la bicicletta, si ferma e mi dice: «Ci conosciamo, ora salutiamoci col nostro saluto musulmano Salam aleikum pace a voi».
La signora N., diplomata e attiva nella società algerina, afferma chiaramente che si è formata alla scuola dell’amicizia coi preti e con le suore del suo villaggio e che sono i suoi migliori amici. E dice: «Vi trovo gli autentici valori dell’islam».
Frère Christian de Chergé, il priore ucciso assieme ai suoi compagni a Tibherine, aveva un amico musulmano e con lui viveva lunghi momenti di dialogo e di amicizia. Ma dopo un periodo in cui era stato tanto occupato e aveva diradato gli incontri, si sentì richiamato all’ordine: «È da tanto tempo che non abbiamo più scavato il nostro pozzo!». Si capivano bene, tanto che frère Christian gli chiese: «E in fondo al nostro pozzo, cosa troveremo? Acqua musulmana o acqua cristiana?». L’altro gli disse: «Lo sai bene che in fondo al nostro pozzo c’è l’acqua di Dio». Anche Maria è la mamma di tutti.
«Capisce l’Arabo?», chiede una donna musulmana a una suora, indicando la statua della Madonna nella Basilica Nostra Signora Africa di Algeri. «Certo», le dice la suora. «Allora le svuoto il cuore».
Paul Desfarges, vescovo di Costantine, dice: «Sperimentiamo una fraternità più profonda di quella dei legami familiari, religiosi o nazionali. Con tutti, parenti, amici, colleghi e amici musulmani, la fraternità non sarebbe vissuta in Cristo se non fosse fraternità autenticamente umana. Che Cristo sia nominato o no, l’importante è di lasciarci condurre a questa fraternità di umanità che cresce come puro rispetto, puro servizio, gioia di ogni gioia, sofferenza di ogni sofferenza. Il cuore profondo, più interiore di quello sensibile, permette di traversare le differenze religiose».
Al di sotto delle diversità religiose e culturali c’è un cuore unico.
Quando ci si saluta, si mette la mano sul cuore e il cuore ci unisce.

Per un mondo più “umano”

Durante l’anno 2013-2014, abbiamo riletto la nostra presenza in Algeria come discepoli di Gesù che ci ha invitati a rivederlo nei poveri. Gesù sentiva compassione profonda per la povertà e l’ingiustizia che trasformavano gli esseri umani in esseri anonimi senza nome e passato. Come sono oggi i migranti chiamati “senza documenti” o “clandestini”. La realtà dei poveri ci rivela le linee di frattura, quelle della società e quelle della Chiesa. Siamo chiamati a essere attenti alle chiamate profonde delle persone e a rivedere, ripensare e riorientare le attività abituali della Chiesa.
Papa Francesco ci chiama a un cammino di conversione evangelica. Il servizio presso gli emarginati apre il cuore alla scoperta sempre nuova di Gesù nei poveri, nei piccoli, quelli che mettono la loro fiducia nel Dio unico in Gesù e che formano il popolo delle Beatitudini. Accostando i poveri, le forme di servizio diventano sempre nuove e ci domandiamo come allargare lo spazio della loro presenza nella nostra vita personale e collettiva (comunitaria, parrocchiale, diocesana).
Oggi nella nostra Chiesa ci accorgiamo di novità importanti di presenza: migranti, studenti sub-sahariani, cristiani algerini, operai stranieri, prigionieri.
Ognuno di noi è chiamato a spostarsi, ad avvicinarsi interiormente per meglio “conoscere l’altro” e “meglio capirlo”. Nella Chiesa non ci sono “stranieri”, né “ospiti di passaggio”. Non c’è chi è al centro e chi è in parte, ma siamo, come dice San Paolo: «concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio» (Ep 2, 19). Dobbiamo trovare il nostro posto accanto a loro e raccogliere la saggezza preziosa di chi vive in margine. Essi possono insegnarci ciò che hanno imparato per vivere e per sopravvivere: esilio, creatività, solidarietà, energia di resistenza e gioia di vivere.
I migranti riconoscono l’amore della Chiesa per raggiungerli, accoglierli, visitarli anche in prigione. Anche gli operai stranieri vivono una vita difficile, per molti una vita come celibi. Anche nelle loro autostrade in costruzione, nelle officine o nelle basi in mezzo al deserto… anche di lì passa Gesù.
Numerose famiglie povere, ammalati, handicappati, bambini, anziani… sono loro i soggetti delle nostre visite, di accompagnamento e di cure, insieme ai soci attivi delle associazioni dell’Algeria e a persone di fede diversa. Avviene un dono, un’accoglienza reciproca. Non si dona solamente, ma anche si riceve. Insieme, gli uni e gli altri, ci umanizziamo, facendo questo mondo più umano.