Fede di musulmani

Alcuni amici raccontano volentieri la loro fede. Aicha Naili si definisce «Assetata di Dio» e scrive:
«È una gioia per me dire il centro della mia vita, la mia relazione con Allah. La prima parola che mi viene per avvicinarmi a quello che sento nel mio cuore verso il mio Dio è Amore.
Come non amare chi è sempre con me, mi sente, mi conosce e tutto ciò per proteggermi, aiutarmi e guidarmi in un mondo dove sono così debole, fragile e impotente.
Quante volte mi sono sentita sola, e solo Lui toglieva la solitudine del mio cuore appena mi rivolgevo a Lui. Quante volte ero in piena confusione e Lui solo mi recava con dolcezza estrema il conforto e la guida più illuminata. Non posso che sciogliermi d’amore al ricordo di tutte le volte che mi sono diretta verso di Lui, divorata da un dolore profondo. Come lo zucchero si scioglie nell’acqua, così il mio male si scioglieva nella misericordia del Misericordioso e questo subito dopo la mia preghiera. Non posso contare i miei errori e il male che mi hanno prodotto. Ma Lui non smette mai di promettermi il suo perdono ogni volta che glielo chiediamo. Come non amare Colui che mi ha dato la vita, questa fortuna di conoscerlo e di essere al suo servizio come creatura.
Perché Allah ci offre una misericordia così grande? Una sola è la risposta: ci ama. È vero che lo amo, ma è lui che mi ha amata per primo». (dalla Rivista “Pax et Concordia”)

 

Arrivederci Piccola Sorella Hayat

La vedevo arrivare alla cappella come un pulcino intirizzito e dopo la Messa mi insegnava a leggere i testi in arabo. Ho ancora la sua voce registrata…Nel 2006, arrivò a Touggourt dopo aver vissuto cinquant’anni a Tamanrasset dove faceva l’ infermiera. Non dimenticherò mai il suo sorriso dolce, celestiale. La mattina del 24 novembre è partita ad abbracciare la fondatrice Magdeleine e le altre Piccole Sorelle. Ora mi sorride dal Cielo. Alla partenza da Tamanrasset il vescovo Claude Rault aveva scritto: «Alcune settimane fa ho visitato la Fraternità delle nostre Piccole Sorelle di Gesù che si preparavano a lasciare Tamanrasset dopo una presenza di 53 anni. Sono stato profondamente toccato dalla testimonianza di ognuna. Due di loro hanno vissuto a lungo in tenda in mezzo ai tuareg, condividendo con loro la vita e gli spostamenti da un pascolo all’altro. Un’esistenza dura, vicina alle famiglie in situazione di precarietà. Un’altra ha lavorato a lungo in ospedale condividendo il lavoro delle infermiere. Tre esistenze piene che ora prendono una svolta. Certo, grande è la sofferenza di lasciare ambiente, relazioni e il profondo inserimento che ha marcato questa Fraternità. Gli amici ce lo manifestano chiaramente. Ma ciò che è stato seminato nell’amore verso questa popolazione dell’Hoggar, non può morire.
Nella nostra esistenza di discepoli di Gesù arriva a volte il momento di interrompere, di trasmettere il lavoro ad altri, di fare la valigia e di transumare altrove, sia per una partenza definitiva sia per un certo periodo. Resta il rammarico di lasciare ciò che si è vissuto e che non tornerà più.
Ma ciò che è stato seminato non se ne va e porterà frutto!».

Incontrare l’anima musulmana

Abd-el-Jalil era un musulmano del Marocco. Si convertì al cristianesimo e si fece frate francescano. Morì nel 1979. Alla sua conversione, suo padre celebrò una cerimonia funebre. Divenne professore universitario e insegnò lingua, letteratura araba e islamologia all’Istituto Cattolico di Parigi. Conservò un vivo rispetto per la religione che aveva vissuto e scrisse numerose opere sugli aspetti interiori dell’islam. Diceva: «Non dobbiamo permetterci noi cristiani di dare giudizi approssimativi sui musulmani. Il Corano insegna ai musulmani che i cristiani sono dolci umili misericordiosi e orientati verso la ricerca della perfezione. Dovremmo essere esigenti con noi stessi in favore degli altri credenti, particolarmente in favore dei musulmani che attendono da noi mansuetudine, umiltà, misericordia e ricerca di perfezione».
All’epoca del Concilio era molto impegnato in conferenze sull’islam e partecipò alla Settimana di missiologia di Lovanio nel 1964 con una conferenza dal tema “All’incontro dell’anima musulmana”.
Abd-el-Jalil diceva: «Avvicinarsi all’islam richiede tatto e delicatezza. Come fece Gesù verso l’umanità. E un cammino completo. Molti cattolici hanno la preoccupazione di difendere la verità cattolica. Piuttosto di vedere un pericolo nell’islam, Massignon (padrino di Battesimo) affermava che si deve vedere uno stimolo, un pungolo, sul fianco della Chiesa perché manifesti la carità».
Dalla rivista Oasis, N. 7

Cogliere l’occasione della “Grazia”

«Grazie, padre Silvano, per le tue cartoline, in modo particolare per quella sui Rapporti personali profondi. Ogni mattina ho una signora del Marocco che mi accudisce (mi lava, mi veste, mi siede sulla carrozzina…) e, in tutto questo tempo, ci raccontiamo le nostre esperienze con figli, marito , rapporto con fratelli, cognate, dove acquistare e come preparare i cibi, i lavori di casa, le sue esperienze nella sua famiglia in Marocco… E anche di religione: confrontiamo le nostre feste, le nostre preghiere, il nostro vivere la religione. Io ho seguito le sue giornate di digiuno, ogni mercoledì lei mi augura “buona preghiera”, e io le dico “pregherò per te” e lei mi ringrazia. Non troviamo molte differenze. Cogliere il senso della fede nella vita reale delle persone illumina questa fede di una luce ben diversa da quella di una conoscenza teorica del contenuto dei dogmi dell’altra religione. Questa occasione è “Grazia”!».
Grazie R. per la “Grazia” della tua testimonianza, che desidero far conoscere a tutti i nostri amici. Anche loro si lasciano aprire il cuore all’azione dello Spirito che vuole una sola famiglia e farci sentire la gioia di essere veramente fratelli. Nell’umiltà dei nostri rapporti scopriamo le ricchezze dell’altro, cresce il cuore e un mondo nuovo.
Appena scritte queste righe, trovo nel Breviario: «In ogni vita il silenzio dice Dio. Tutto ciò che è esulta perché gli appartiene. Siate la voce del silenzio in attività. Proteggete la vita, essa loda Dio!».

Rapporti personali profondi

Lo scorso settembre, mentre ero in Italia, ho partecipato a un convegno su Le frontiere dell’interculturalità organizzato dal seminario teologico del Pime di Monza. Le conferenze erano tenute da persone competenti, ma per due volte non sono riuscito a trattenermi dall’esprimere una certa distanza tra il contenuto che mi appariva teorico e quello che io vivo a contatto con popolazioni di cultura e religione diversa.
Mi trovo d’accordo con quanto scrive padre Christian van Nispen, gesuita che dal 1964 ha insegnato filosofia e islamologia all’università copto-cattolica del Cairo, nel suo libro Chrétiens et Musulmans frères devant Dieu?
«Per un dialogo interreligioso con l’islam, fecondo e vero, è essenziale mettere insieme due elementi. Da una parte, la conoscenza dell’Islam (istituzioni, storia, realtà…) è importante per cogliere il senso dei termini utilizzati dall’interlocutore musulmano e il fondo del suo pensiero; infatti ogni persona è segnata, molto più di ciò che si pensa, dal sistema religioso, culturale o ideologico che ha ereditato e nel quale è stato educata.
D’altra parte, i rapporti personali profondi con alcuni musulmani non sono meno importanti.
Certo, le relazioni personali necessariamente presentano qualcosa di particolare, ma senza questa dimensione l’incontro resta astratto. La relazione permette di scoprire la fede religiosa – atto fondamentale personale – nell’esperienza vissuta di persone concrete. La scoperta dell’esperienza religiosa vissuta, dall’altro credente può creare una vera comunicazione, meglio comunione nella differenza. Cogliere il senso della fede nella vita reale delle persone illumina questa fede di una luce ben diversa da quella di una conoscenza teorica del contenuto dei dogmi dell’altra religione».

Arricchire la Chiesa di povertà

La quarta nota della Chiesa in Algeria descritta dal vescovo Pierre Claverie, ucciso nel 1996: «Accettare la propria povertà come ospite, spogliata di quanto aveva e lasciarsi amare. Accogliere l’aiuto dell’altro, il consiglio, l’orientamento che nascono da una condivisione di vita e di vera comunione».
«Sono qui non per “fare notizia – dice Papa Francesco ad Assisi – ma per indicare che questa è la via cristiana, quella che ha percorso san Francesco… Francesco fece la scelta di essere povero. Non è una scelta sociologica, ideologica. È la scelta di essere come Gesù, di imitare Lui, di seguirlo fino in fondo. Gesù è Dio che si spoglia della sua gloria». Così il Papa alza lo sguardo e si chiede: «Di che cosa deve spogliarsi la Chiesa?».
«La Chiesa deve spogliarsi di ogni mondanità spirituale, che è una tentazione per tutti; spogliarsi di ogni azione che non è per Dio, che non è di Dio; dalla paura di aprire le porte e di uscire incontro a tutti, specialmente dei più poveri, bisognosi, lontani, senza aspettare; certo non per perdersi nel naufragio del mondo, ma per portare con coraggio la luce di Cristo, la luce del Vangelo».
Il cappuccino Hubert Le Bouquin che vive a Tiaret (Algeria), vede il Papa come il nuovo Francesco e scrive: «Chiamarsi Francesco non può essere un programma di pontificato. Francesco d’Assisi non era un uomo di programma. Il nome è soprattutto un segno. Segno di una Chiesa che vuol essere povera, che vuole vivere nella sua carne la beatitudine evangelica: – Felici voi poveri! -. Non una Chiesa per i poveri, che deve andare verso i poveri e chinarsi verso di loro, ma una Chiesa che si lega a loro, che assume la loro condizione, che prende ella stessa i cammini della povertà come il suo Signore Gesù, lui, che da ricco che era, si è fatto povero per arricchirci della sua povertà e che non smise mai di legarsi con amore ai poveri. Si è fatto povero perché la Chiesa come lui arricchisca il mondo della sua povertà».