Vado spesso a celebrare la Messa nella chiesa di Nostra Signora delle Sabbie a Hassi Messaud con i cristiani stranieri operai del petrolio e del gas.
Durante l’attacco al sito di In Amenas, a metà gennaio 2013, sono stato consigliato di non muovermi, perché tutti gli stranieri che vivono nei campi non potevano uscire per nessun motivo.
In alcune società, tecnici e operai fanno un ritmo di lavoro di 28/28, cioè quattro settimane di lavoro e quattro settimane di sosta. Durante questo periodo, alcuni vengono da me per migliorare il loro livello di conoscenza del francese e quindi ho conosciuto qualcuno che va a In Amenas. Nei giorni del rapimento e dell’incursione dell’esercito algerino pensavo spesso a lui e cercavo sue notizie.
Due giorni dopo la strage di terroristi e di stranieri, ricevo una visita. È proprio l’amico a cui pensavo e che mi dice subito abbracciandomi: «Sei il primo che ho voluto rivedere, ho pensato tanto a te». Immaginate l’emozione e la gioia di entrambi.
Del racconto lungo e dettagliato di quei giorni riporto solo alcuni dettagli. «La sofferenza, la paura sono state immense. Noi algerini abbiamo solidarizzato con gli stranieri, abbiamo voluto restare uniti a loro, mescolarci con loro. Io ne ho salvati tre…».
E aggiunge: «Finalmente, eccoci all’aeroporto. Da lontano vedo uno che avevo salvato. Lascio i bagagli e corro. Ci siamo abbracciati a lungo davanti a tutti. Non faceva che dirmi: “Non ti dimenticherò mai”. Piangevamo. E così tutti quelli che aspettavano l’aereo, algerini, stranieri, tutti esultavano di gioia. Ci sentivamo tutti fratelli».
Questa frase – «Ci sentivamo tutti fratelli» – mi suona forte nell’animo perché nell’ambiente di lavoro, il rapporto tra stranieri e personale locale non può essere profondo, soprattutto a causa del ritmo di lavoro. Ma questo avvenimento terribile ha fatto scoppiare quello che è nascosto nel cuore di ognuno: «Ogni persona è mio fratello».