Il mare non separa, unisce

Il Mediterraneo era chiamato dai romani Mare nostrum. Divenuti padroni di tutte le sue coste consideravano queste acque come una sorta di “piscina di casa”.  Tutt’intorno i romani coprirono le terre circostanti di empori di commercio, anfiteatri, templi, ecc.

Dopo i romani altri popoli, emersero e viaggiarono… L’Italia conobbe varie invasioni e presenze e ne conserva ancora i segni.

Oggi parecchi abitanti dei Paesi vicini chiedono ospitalità. Non si presentano più come una volta con le armi di aggressori, ma come gente che vuol convivere. Alcuni italiani, tuttavia, hanno paura che possano a poco a poco invadere e conquistare. Ma molto dipenderà da come gli italiani sapranno incoraggiare e attuare una vera integrazione.

Monsignor Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo, ha affermato che il mare non separa ma unisce. La convivenza con molti tunisini è pacifica e reciprocamente vantaggiosa. La popolazione della regione è meravigliosa col suo spirito di accoglienza e di fraternità. Soprattutto meravigliose sono state le donne, le mamme, che continuano a dire: «Siamo tutti figli di Dio, siamo fratelli!». Sappiamo anche che il Vescovo ha offerto la sua collaborazione al governo italiano nel dialogo con la Tunisia, per affrontare l’emergenza immigrazione.  «I rimpatri – dice – non devono diventare deportazioni all’incontrario: vanno concordati con Tunisi e accompagnati da progetti per creare lavoro nel Paese nordafricano. Non basta, quindi, il blocco degli imbarchi».

Varie sono oggi le iniziative attorno al Mediterraneo.  Il governatore Francesco Socievole del Rotary Club di Caserta impegnato in varie iniziative, afferma: «Il nostro obiettivo è quello di avvicinare ed unire i diversi popoli che hanno abbracciato l’Umana Civiltà. Sappiamo bene che il Mediterraneo è la fonte di ogni fede, di ogni cultura e di ogni ragione e che i popoli spesso si sono divisi, dilaniati. È forte la speranza che il Mediterraneo diventi mare di pace e di civiltà…».

L’Italia apre e si fa giovane. Aprire la porta e accogliere è rischioso ma non tutti hanno paura. Abramo e Sara accolsero i viandanti e grazie a quella accoglienza si trovarono cambiati, giovani, genitori, benedizione per un popolo nuovo. Sono un simbolo di accoglienza.

Anche l’Italia sente ogni giorno qualcuno che bussa alla porta. Ciò non è nuovo. È sempre stato così fin dai suoi inizi, proprio per la sua posizione geografica. Gente dal nord, dal sud, dall’est, dall’ovest… venne in ogni momento e formò un popolo cosmopolita, multireligioso, multirazziale, multicolore… Ho amici che mi parlano di origini greche, montenegrine, slave, nordiche, ecc. Forse abbiamo tutti qualcosa di straniero nella nostra persona. Ora tutti ci diciamo italiani, italiani veri. Ed è bello. Come quel piccolo cinese che canta: «Lasciatemi cantale, con la chitarra in mano, sono un italiano, italiano velo».

Sì, ridiamo, ma con cuore giovane, aperto, coscienti che ci troviamo in un momento importante, da non perdere, anche se un po’ scombussolati.

Ma perché e come aprire? Non basta il sentimento, pur bello e nobile. Non è solo questione di opere buone, ma di fedeltà alla propria identità culturale. Quello che dicono le donne siciliane: «Siamo tutti figli di Dio, siamo fratelli» è definire la nostra vera natura, credere fortemente al grande progetto della famiglia umana. Questo spalanca cuore, casa, tutto. Con questa verità ci accorgiamo che abbiamo ancora qualcosa da donare e che siamo disposti a diventare nuovi.

Con la coscienza che quello che abbiamo e che siamo non è solo per noi. Tutto ciò che è vita è un dono, da scoprire e da donare.

Essere cristiani in Pakistan

Vorrei ricordare il testamento di Shahbaz Batti, ministro pakistano cristiano, ucciso dagli estremisti.

«Ricordo un venerdì di Pasqua quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere a quel suo amore, donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo Paese islamico.
Mi sono state proposte alte cariche al governo e mi è stato chiesto di abbandonare la mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa: “No, io voglio servire Gesù da uomo comune”.
Questa devozione mi rende felice. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora – in questo mio battagliero sforzo di aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan – Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire».

Ora al fratello medico, Paolo, formato a Padova, il governo pakistano ha chiesto di continuare il suo lavoro in favore delle minoranze del paese.

 

Leggendo il testamento di questo cristiano pakistano mi son venuti alla mente i miei confratelli missionari del Pime arrivati in Pakistan nel 1855. Il “ricordare i nostri’ è per me “malattia di famiglia”. Oggi lavorano nel Pakistan orientale  divenuto Bangladesh nel 1971.

Leggo nelle prime cronache del Pime.

«I primi missionari del Pime destinati al Bengala, padre Albino Parietti, padre Luigi Limana, padre Antonio Marietti e fratel Giovanni Sesana, sbarcano a Calcutta all’inizio del giugno 1855 e il 17 giugno arrivano a Berhampur. Cominciano una vita da monaci: studio e preghiera, preghiera e studio, imparano l’hindi e il bengalese. Vivono in una povertà estrema. Appena riescono a farsi capire, i tre sacerdoti si stabiliscono in tre località diverse. Il superiore Parietti a Berhampur, Limana a Krishnagar con fratel Sesana e Marietti a Jessore».

«Studiamo a tutta posa e con vero calore perché senza lingua saremmo statue. …4 ore di scuola e 5 di studio, oltre agli altri doveri diversi. E ciò con 44°». (padre, Parietti, Berhampur, 26 luglio 1855).

«I nostri cattolici sono così dispersi e così bisognosi dell’assistenza del missionario che di tre che siamo, siamo divisi in tre differenti province, e ciò per assentimento del nostro amatissimo Vescovo di Calcutta, che molto approvò tale divisamento. (padre Parietti, Berhampur, 19 marzo 1857)

«Nella primavera del 1857 scoppia la “rivolta dei sepoys”. I civili inglesi fuggono. I missionari restano, affermando di essere “protetti dalla sola Divina Provvidenza», come scrive padre Parietti. Non hanno infatti nessun fastidio da parte dei ribelli. 

«La Chiesa – diceva qualche tempo fa padre Sozzi – pur senza accorgersi, e pur facendo pochi e incerti cristiani, ha trasformato il Bengala. (…) le idee cristiane, testimoniate e predicate da questa piccola comunità, hanno cambiato radicalmente l’ambiente, come, io credo, hanno cambiato il mondo».

Il bene comune

Nel suo discorso pasquale il Papa ha parlato anche agli abitanti dei paesi dell’Africa settentrionale e del Medio Oriente. «Tutti i cittadini, ed in particolare i giovani, ha detto, si adoperino per promuovere il bene comune e per costruire società, dove la povertà sia sconfitta ed ogni scelta politica risulti ispirata dal rispetto per la persona umana».

Spesso il Papa tocca il tema del bene comune ed è una realtà veramente rivoluzionaria. Il papa presenta anche il cammino nuovo.

«Cristo risorto cammina davanti a noi verso i nuovi cieli e la terra nuova (cfr. Ap 21,1), in cui finalmente vivremo tutti come un’unica famiglia, figli dello stesso Padre. Lui è con noi fino alla fine dei tempi. Camminiamo dietro a Lui, in questo mondo ferito, cantando l’alleluia. Nel nostro cuore c’è gioia e dolore, sul nostro viso sorrisi e lacrime. Così è la nostra realtà terrena. Ma Cristo è risorto, è vivo e cammina con noi. Per questo cantiamo e camminiamo, fedeli al nostro impegno in questo mondo, con lo sguardo rivolto al Cielo».

Ma una domanda: Sappiamo tutti che cos’è il bene comune?

Un volontario dello sviluppo educa alcuni ragazzi africani allo sport. Un giorno si presenta con una scatola di cioccolatini e dice: «Vedete quell’albero lì, lontano. Conterò fino a tre e poi correte. Il primo che toccherà l’albero riceverà questi cioccolatini. Uno, due, tre…via!».

Con sorpresa,  i tre si danno la mano e corrono tutti insieme. E si dividono i cioccolatini.

Questa è la vera corsa che il mondo dovrebbe correre. Il proprio interesse, non l’unico, la competitività, la libera iniziativa e la concorrenza sono stimolanti ed efficaci. Ma non la guerra.

Anche i cinesi hanno l’idea del senso comune della vita, della gioia e del dolore. Lo dicono raccontando come si è all’inferno e come si è in paradiso. In inferno si soffre la fame davanti a un cibo gustosissimo che si mangia già cogli occhi, ma che ciascuno non può raggiungere perché i bastoncini per avvicinarlo alla bocca sono troppo lunghi. Ognuno pensa per sé.

In paradiso invece sono tutti felici perché ognuno coi bastoncini lunghi può raggiungere la bocca dell’altro, anche se lontano. Tutti per uno, e ciascuno per tutti.

Oggi siamo ancora tutti all’inferno. Il paradiso è ancora lontano?

A Napoli quando si beve il caffè al bar, si lasciano i soldi anche per qualcuno che non avendo denaro, si presenta e chiede: «C’è un caffè già pagato?». E il cameriere risponde : «Si, c’è!». È un uso sacro, parola di Massimo Ranieri.

Gesù ha già pagato un bene comune, per tutti!