Sinodo in preghiera

L’Assemblea del Sinodo dei Vescovi inizierà la mattina del 4 ottobre 2023 dopo un ritiro spirituale di 3 giorni per sottolineare la centralità della preghiera nel processo sinodale, che è un processo spirituale.

Nel pomeriggio del 30 settembre, all’assemblea precederà la Veglia ecumenica di preghiera in Piazza San Pietro presieduta dal Papa.

Questo tempo di preghiera nasce da un sogno espresso da frère Alois, priore di Taizé, all’apertura del Sinodo, il 9 ottobre 2021. Il progetto è stato poi proposto a Papa Francesco, che ha deciso di programmarlo e presiederlo alla veglia di Sinodo. Aperta a tutto il Popolo di Dio, questa veglia ecumenica di preghiera metterà in luce due aspetti fondamentali del Popolo di Dio: la centralità della preghiera e l’importanza del dialogo con gli altri per avanzare insieme sulle vie della fratellanza in Cristo e dell’unità,  A questa Veglia ecumenica di preghiera, oltre ai membri dell’Assemblea del Sinodo dei Vescovi, parteciperanno numerosi leader delle diverse Chiese e comunioni cristiane: Chiese ortodosse, chiese ortodosse orientali, comunioni protestanti storiche e comunioni evangeliche-pentecostali.

In modo particolare, dodici capi di Chiesa e leader cristiani sono stati invitati a guidare la preghiera insieme a Papa Francesco. Interverranno inoltre alcuni Delegati fraterni mandati dalle loro Chiese all’Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi.

Il programma è previsto in due parti. Dopo un tempo di accoglienza sulla piazza con cori diversi seguirà una processione dalle 17:00 alle 18:00 con quattro interventi di ringraziamento, intervallati da canti, sui doni che Dio ci fa e sulla responsabilità che ne consegue. Dopo ogni intervento sono presentate alcune testimonianze.

Alla preghiera conclusiva seguirà la benedizione insieme da parte di Papa Francesco e di tutti i dodici Capi delle Chiese/leader cristiani, rivolti ai partecipanti al Sinodo e a tutti gli altri.

Per permettere ai giovani di partecipare a questo importante momento di preghiera per affidare a Dio i lavori del Sinodo, la Comunità di Taizé e molti altri hanno preso l’iniziativa di organizzare un fine settimana di incontro a Roma. Questo incontro per i giovani dai 18 ai 35 anni, porta anche il nome di Together.  Questa veglia di preghiera e il Raduno Together sono il frutto di una meravigliosa collaborazione in uno stile molto sinodale.

Per dirla con Papa Francesco, «Il cammino si fa camminando», questo evento unico e profetico, aperto a tutto il Popolo di Dio nella sua diversità, può dimostrare come la missione della Chiesa è di essere una comunione che si irradia verso l’esterno per mostrare al mondo qual è la posta in gioco nel progredire insieme lavorando per l’unità del genere umano.

Siamo comunione con la nostra preghiera.

Il Papa in Mongolia: «Costruiamo insieme un futuro di pace»

 Nel secondo giorno di Papa Francesco in Mongolia, arriva dal Pontefice l’esortazione alla collaborazione per un futuro di pace. «Vengo qui come un pellegrino di amicizia che giunge in punta di piedi», ha detto alle autorità e al corpo diplomatico, portando con sé in dono il facsimile della lettera che il Gran Khan inviò a Papa Innocenzo IV quasi 800 anni fa.

 Le parole di Papa Francesco e la “pax mongolica”

«Sono onorato di essere qui, felice di aver viaggiato verso questa terra affascinante e vasta, verso questo popolo che ben conosce il significato e il valore del cammino. Lo rivelano le sue dimore tradizionali, le ger, bellissime case itineranti. Immagino di entrare per la prima volta, con rispetto ed emozione, in una di queste tende circolari che punteggiano la maestosa terra mongola, per incontrarvi e conoscervi meglio». Queste le prime parole pronunciate all’interno della Sala Ikh Mongol del Palazzo di Stato.

 

«Diamoci da fare insieme per costruire un avvenire di pace»

«Se le moderne relazioni diplomatiche tra la Mongolia e la Santa Sede sono recenti – quest’anno ricorre il trentesimo anniversario della firma di una lettera per rafforzare i rapporti bilaterali – ben più indietro nel tempo, esattamente 777 anni fa, proprio tra la fine di agosto e l’inizio di settembre del 1246, Fra Giovanni di Pian del Carpine, inviato papale, visitò Guyug, il terzo imperatore mongolo, e presentò al Gran Khan la lettera ufficiale di Papa Innocenzo IV», ha ricordato Francesco. «Poco dopo fu redatta e tradotta in varie lingue la lettera di risposta, timbrata con il sigillo del Gran Khan in caratteri mongoli tradizionali – ha sottolineato il Pontefice -. Essa è conservata nella Biblioteca Vaticana e oggi ho l’onore di porgervene una copia autenticata, eseguita con le tecniche più avanzate per garantirne la migliore qualità possibile. Possa essere segno di un’amicizia antica, che cresce e si rinnova».

Quindi l’esortazione alla pace: «Voglia il Cielo che sulla Terra, devastata da troppi conflitti, si ricreino anche oggi, nel rispetto delle leggi internazionali, le condizioni di quella che un tempo fu la ‘pax mongolica’, cioè l’assenza di conflitti».

«Passino le nuvole oscure della guerra – ha continuato il Pontefice – vengano spazzate via dalla volontà ferma di una fraternità universale, in cui le tensioni siano risolte sulla base dell’incontro e del dialogo, e a tutti vengano garantiti i diritti fondamentali! – è stato il suo appello – Qui, nel vostro Paese ricco di storia e di cielo, imploriamo questo dono dall’Alto e diamoci da fare insieme per costruire un avvenire di pace».

 

San Pio X e gli indios dell’America del Sud

Il 7 giugno 1912 il santo Pio X scrisse la Lettera enciclica “Lacrimabili Statu” per deplorare il fatto che in molti luoghi gli indios vivevano ancora in condizioni lagrimevoli. Papa Pio X riprende «profondamente commosso» quello che il suo predecessore Benedetto XVI, aveva «preso seriamente a cuore per la loro causa» con la Lettera “Immensa pastorum”, in data 22 dicembre 1741.

Rileggiamo: «Ci affrettiamo perciò a richiamare al vostro pensiero la memoria di quella lettera. Ivi infatti, insieme ad altre cose, di questo pure Benedetto si duole, che, cioè, sebbene da lungo tempo la sede apostolica molto si fosse adoperata per sollevare la loro misera sorte, vi fossero tuttavia anche allora «uomini professanti la vera fede, i quali, quasi del tutto dimentichi dei sensi di carità infusi nei nostri cuori dallo Spirito santo, si credono lecito verso i miseri indios, non solamente se privi della luce della fede, ma anche se bagnati del santo lavacro della rigenerazione, o di ridurli in schiavitù o di venderli ad altri come schiavi, o di privarli dei loro beni, e di comportarsi con essi con tale inumanità da distoglierli soprattutto dall’abbracciare la fede di Cristo, e raffermarli sempre più nell’odio contro di essa. (…)

Ci soffermiamo a considerare le sevizie e i delitti che si sogliono ora commettere contro di essi, abbiamo davvero di che inorridire e sentiamo nell’animo una profonda commiserazione per quella razza infelice. Che cosa può esservi, infatti, di più barbaro e più crudele dell’uccidere, spesso per cause lievissime, e non di rado per mera libidine di torturare, degli uomini a colpi di sferza o con ferri roventi, o con improvvisa violenza farne strage, uccidendoli insieme a centinaia e a migliaia; o saccheggiare borghi e villaggi, massacrando gli indigeni, dei quali talune tribù abbiamo appreso essere state in questi pochi anni quasi distrutte? A rendere gli animi tanto feroci certo grandemente influisce la cupidigia del lucro, ma non poco altresì vi contribuisce la natura stessa del clima e la posizione di quelle regioni. Infatti essendo quei luoghi soggetti ad un’atmosfera torrida, che inoculando nelle vene un certo languore, viene quasi ad affievolire la forza degli animi, e, trovandosi essi lontani da ogni pratica della religione, dalla vigilanza dello stato, e quasi dallo stesso consorzio civile, facilmente accade che se taluni, di costumi non pervertiti, si rechino colà, in breve tratto di tempo comincino a depravarsi e man mano, rotti tutti i ritegni del dovere e delle leggi, precipitino in tutti gli eccessi del vizio. Né da costoro si perdona la debolezza del sesso e dell’età, che anzi fa vergogna il riferire le loro scelleratezze e malvagità, nel fare incetta e mercato di donne e fanciulli, talché si direbbero per essi, con tutta verità, sorpassati gli esempi più estremi della turpitudine pagana. (…)

Noi, invero, per qualche tempo, quando Ci venivano riportate siffatte voci, dubitavamo di prestare fede a simili atrocità, tanto Ci sembravano incredibili. Ma dopo che da amplissime testimonianze, cioè dalla maggior parte di voi, venerabili fratelli, dai delegati della sede apostolica, dai missionari e da altre persone del tutto degne di fede, ne siamo stati informati, non Ci è più lecito avere alcun dubbio sulla verità delle cose. (…)

Intanto, affinché a quello che voi di vostra spontanea iniziativa o per esortazione Nostra, sarete per fare a vantaggio degli indios si aggiunga la maggiore efficacia possibile, Noi, seguendo l’esempio ricordato dal Nostro predecessore, condanniamo e dichiariamo rei d’immane delitto tutti coloro, com’esso dice, che «osino o presumano di ridurre i predetti indios in schiavitù, di venderli, comprarli, commutarli o donarli, di separarli dalle mogli e dai figli, di spogliarli delle loro cose e dei loro beni, di condurli o trasportarli altrove o in qualunque modo privarli della libertà e tenerli schiavi, nonché di prestare, a coloro che ciò fanno, consiglio, aiuto, favore, sotto qualunque pretesto e nome, o di insegnare e proclamare essere tutto ciò lecito, in qualsiasi altra maniera cooperare a quanto detto sopra». Vogliamo pertanto riservata agli ordinari dei luoghi la potestà di assolvere da siffatti delitti i penitenti, nel sacro tribunale della confessione».

Così scriveva cent’anni fa il santo Pio X. Oggi Papa Francesco vede nel mondo ancora tante atrocità.

Addio a padre Mario Bianchin, missionario del Pime per 50 anni in Giappone

Nato a Fontane di Villorba (TV), il 18 aprile 1941, Mario Bianchin è entrato nel PIME di Piazza Rinaldi a Treviso il 13 ottobre 1952 come seminarista. L’aveva portato in bicicletta il suo cappellano.

Compie gli studi di teologia negli Stati Uniti, emette il giuramento il 4 giugno 1964 ed è ordinato sacerdote il 12 giugno 1965. Dopo alcuni anni di servizio negli USA come animatore vocazionale ed aver conseguito un M.A. (laurea) sui media alla Loyola University di Los Angeles nel giugno del 1972, parte per il Giappone il 4 ottobre seguente. Produce una video-cassetta sulla preghiera (Inori) in Giappone.

Lo scorso 14 febbraio il nunzio mons. Leo Boccardi gli aveva conferito la “Croce pro Ecclesia et Pontifice” per il trentennale servizio missionario presso la Nunziatura Apostolica locale. La cerimonia, svoltasi nella parrocchia di Yurigaoka (dove padre Mario era appunto impegnato), ha rappresentato un grande onore per tutta la comunità missionaria giapponese.

Nel 2013, in occasione del Santo Natale, padre Mario ricordava con queste parole ciò che per lui rappresentava il tratto distintivo della dimensione sacerdotale e missionaria: «Essere dei “chiamati” è la parola che ci costituisce, la parola che ci permette di vivere quella vita nuova che è il “suo” dono: sempre in ascolto e sempre assenzienti a Lui che ogni giorno ci chiama ad essere “con Lui”».

 Padre Lembo ci scrive: «Padre Mario è deceduto presso l’Ospedale Cattolico delle Suore di San Giovanni Evangelista, SakuraMachi, Tokyo, alle ore 4:21 del giorno 8 agosto. Padre Mario era stato ricoverato dal 17 marzo presso un altro Ospedale Cattolico, il San Marianna di Kawasaki, in seguito a una polmonite Interstiziale. La gravità della cosa lo ha portato ad un lungo ricovero. Padre Mario è morto sereno. Sono andato quasi ogni giorno a trovarlo, per parlare e pregare assieme. Ogni domenica celebravo la S. Messa con lui nella sua camera».

L’8 agosto 2023 il Signore lo ha chiamato a sé per ricevere il premio eterno al suo servizio alla Chiesa e al Regno di Dio.

 

 

Nuovi Martiri

In vista del prossimo Giubileo del 2025 Papa Francesco ha costituito presso il Dicastero delle Cause dei Santi la “Commissione dei Nuovi Martiri –Testimoni della Fede”, «per elaborare un Catalogo di tutti coloro che hanno versato il loro sangue per confessare Cristo e testimoniare il suo Vangelo».

Mi ha interessato molto la parola “nuovi” perché nella mia vita di missionario in Camerun, alcune persone mi sembrano effettivamente “martiri nuovi’. Pierre Malina, ad esempio, era uno dei primi cristiani battezzati a Guidiguis nella diocesi di Yagoua: me lo sento sempre vicino e vivo per la testimonianza che ha lasciato, fuori dagli schemi tradizionali del martirio. Tutta la sua famiglia è stata battezzata e il suo primo figlio era nel centro di formazione dei catechisti quando fu morso mortalmente da un serpente. Era tra i responsabili ed era un generoso sostenitore della crescita della missione. Chi è stato missionario può capire l’aiuto iniziale, importante e continuo, di un cristiano che unisce vita di famiglia e vita di missione.

Ad un certo momento fu accusato di stregoneria, cioè considerato possessore di spirito nocivo alla società, diffusore di malattie e di morte e finì in prigione. Tutto il contrario di come viveva. Andavo a visitarlo e lo vedevo col suo libro liturgico e a volte eravamo anche insieme a pregare e ad insegnare a colleghi carcerati.

In tribunale mi trovai accanto a lui, ma a nulla valsero le mie parole di testimonianza della sua vita di cittadino onesto, sociale e positivo. In realtà, resta un mistero l’inizio di accusa di stregoneria, forse vecchie invidie e gelosie. Uscito di prigione non poté vivere a lungo. Fu massacrato. Mi interessai che il luogo della sua sepoltura fosse ben custodito.

La santità che sentivo in lui è che ha vissuto il suo martirio, testimoniando la sua fede in Gesù, soffrendo con pazienza e continuando a donarsi. In Paradiso continua ad amare la sua famiglia, la sua gente e la missione.

Lo possiamo considerare nella lista dei “nuovi martiri”?  Martiri innocenti accusati di stregoneria. Ne parlai ai missionari e al vescovo… Sarei contento di sentire il parere di chi mi sta leggendo, se ha conoscenza di casi del genere. Per me, Pierre Malina è tra i miei santi preferiti, accanto alla ex-schiava Bakhita.

Si tratta di superare il non raro scoglio della stregoneria, cioè di liberare la mentalità da un’idea culturale di paura di processi nocivi interpersonali. La Chiesa, parlando di culture tradizionali e riconoscendole, ha sempre aggiunto che vanno “purificate”. Ma sono processi profondi, lunghi.

Papa Francesco può darmi la gioia di chiamarlo “martire nuovo”.

 

Addio a don Giuseppe Geremia

Domenica 11 giugno ha concluso, serenamente, la sua giornata terrena presso la Casa del Clero di Treviso don Giuseppe Geremia di anni 89, 64 di sacerdozio, arciprete di Salgareda per 31 anni.

Ne danno l’annuncio il vescovo Michele, i fratelli Mario, Anna Maria, Angelo, Rita, Camillo e padre Pietro del Pime, i nipoti, i pronipoti e familiari tutti, uniti alla parrocchia di Salgareda, alle parrocchie della Collaborazione di Ponte di Piave, alla comunità sacerdotale della Casa del Clero e al presbiterio diocesano, si raccolgono in preghiera con tutti coloro che hanno incontrato, conosciuto e stimato don Giuseppe nel suo lungo ministero sacerdotale e nell’impegno caritativo e sociale. Gesù Buon Pastore lo accolga ora nella pace eterna e gli doni il premio riservato ai suoi servi fedeli.

Ricordo che nel 1947, eravamo compagni di scuola nel seminario diocesano di Treviso. Per motivi di salute dovetti lasciare il seminario e dopo alcuni anni passai al Pime. Fummo ordinati sacerdoti nel 1959. Suo fratello Pietro era entrato nel Pime e nel 1972 partì nelle Filippine dove si trova tuttora. Ha passato dei momenti di opposizione violenta e minacce di morte. Sempre vicino ai poveri, agli oppressi, alle persone trattate senza rispetto e giustizia.

Veramente, mi sembra che i due fratelli si trasmettevano una passione di fedeltà alle istanze del Vangelo.

Di don Giuseppe leggo: «A Salgareda è sempre stato molto vicino ai più sfortunati, collaborando attivamente col Comitato dei diritti dei malati di cui è stato presidente. È stato impegnato anche con altri sodalizi, come ad esempio l’Associazione dei familiari dei malati mentali, gli Alcolisti Anonimi e si è attivato nell’accoglienza agli immigrati».

Ho ritrovato don Giuseppe qualche mese fa nella comunità sacerdotale della Casa del Clero di Treviso. Era un po’ inquieto e voleva continuamente parlarmi del fratello. A volte, di qualcuno, giunto a una certa età, senti dire che ha perso la conoscenza di sé. Tuttavia, fino ai suoi ultimi giorni, don Giuseppe è stato accanto al fratello…

Sentiamoci vicini ai nostri preti anziani e ammalati della Casa del Clero.

Riconosciute le virtù eroiche di Baba Simon

È giunto il giorno di vedere Baba Simon riconosciuto come il primo santo missionario camerunese. Sabato 20 maggio 2023, il Santo Padre Francesco ha autorizzato a promulgare il Decreto riguardante le virtù eroiche del Servo di Dio Simon Mpeke (detto Baba Simon), sacerdote diocesano, nato intorno al 1906 a Batombé (Camerun) e morto il 13 agosto 1975 a Édéa (Camerun);

L’avevo incontrato più volte a Tokombere vicino ai Piccoli Fratelli del Vangelo di Mayo Uldeme, L’ho visto sempre a piedi nudi e con la povera sottana, in dialogo con tutti. Vivendo la missione, poco lontano da lui, lo sentivo testimone di Gesù ed esempio di missionario povero tra i poveri. Ora per conoscere la sua persona e la sua vita consiglio di leggere Baba Simon, le père des Kirdis Editions du Cerf, paris 1988. “Lo chiamavano Baba Simon” di Grégoire Cador,

La vita di Simon Mpeke, tutta donata alla gente di varie lingue, culture e religioni. Mi soffermo a ricordare i primi passi di una chiesa africana che diventa missionaria.

Simon, nato nella famiglia Adié, era entrato nel 1924 nel piccolo séminario di Mvolyé, a Yaoundé. Fa parte dei primi otto preti camerunesi ed è ordinato nel 1935. Prima vicario in diverse missioni cattoliche della regione della Sanaga Maritime, diventa parroco della parrocchia di New-Bell à Douala, praticamente creata da lui. Lascia Douala per il Nord nel 1959 e si stabilisce a Tokombéré, fino alla sua morte. Primo prete africano ad arrivare in quella regione e a rispondere alla chiamata missionaria che lo spingeva tra popolazioni non evangelizzate del Nord che avevano sempre rifiutato la dominazione musulmana.

Nel febbraio 1951 suor Magdaleina Hutin, fondatrice delle Piccole Sorelle di Gesù, arriva a Duala (Camerun) e su invito di mons. Bonneau, si reca a New-Bell, dove rimane colpita dal fervore che vi regna. Mons. Bonneau era molto aperto nei confronti della nuova forma di presenza al mondo proposta dai Piccoli Fratelli e dalle Piccole Sorelle di Gesù. Accoglie i Fratelli e li pone nel quartiere di New-Bell in mezzo ai malati di lebbra. Simon sarà il confessore di questa fraternità.

Nel 1953, durante un viaggio in Camerun, padre Voillaume, vero “fondatore” della corrente di spiritualità foucaultiana, viene a Duala. Così annota nel suo diario: “Ho visto a lungo don Simon, parroco di New-Bell, e ho pranzato con loro in parrocchia. Credo che l’istituto secolare vada seriamente inserito nel clero camerunese… Sono sicuro che quest’anno lascerà molto il segno nello sviluppo del postulato e nell’inizio dell’istituto secolare tra i camerunesi”.

Nel frattempo, Guy Riobé, segretario dell’Unione sacerdotale dei Fratelli di Gesù, commentando l’enciclica Fidei Donum, da poco pubblicata, così dichiara: “Bisognerebbe che l’unione e ciascuno di noi, si mettesse in totale disponibilità e in generosa apertura a tutto ciò che Gesù ci chiederà per renderci sempre più presenti di spirito, di cuore e d’anima all’Africa intera”. Mons. Plumey vescovo O.M.I. grande missionario nel Nord Camerun, sempre più ardentemente desidera l’installazione di un ramo attivo della fraternità dei Fratelli di Gesù a Mayo-Ouldeme, incalza mons. Mongo per ottenere dei preti camerunesi dell’Unione. Durante questo periodo, Simon ritorna da mons. Mongo che gli dichiara: “Tu mi domandi di andare nel Nord del Camerun? Non ti permetto di andare, amico mio: sono io che ti invio, perché penso che il cristianesimo in Camerun non sarà solido fin quando non poggerà su due piedi: il Sud e il Nord. Ti aiuterò come posso”. Superata la soglia dei 50 anni, una nuova fase si apre per questo cercatore di Dio. È parroco influente della più grande parrocchia di Duala. Vedendolo partire i suoi amici lo prendono per pazzo. Mons. Mongo, commentando l’avvenimento, dirà: “Sarà la nostra risposta personale alla ‘fidei donum’, sperando che la Francia venga in nostro soccorso, rispondendo all’appello di Pio XII”. Simon scrive ai fratelli dell’Unione: “Resterò membro dell’Unione in mezzo ai Kirdi”. Meglio comunque chiamarli “pagani” o “non iniziati”… Su 1,5 milioni di abitanti del Nord-Camerun, un milione circa è Kirdi, cacciati dalle loro terre e dalle loro coltivazioni – in seguito al loro rifiuto di sottoporsi ai mussulmani – e costretti poi a stabilirsi su montagne dal suolo molto duro e poco adatto alla coltivazione. Nel 1958 p. Voillaume, di passaggio a Mayo-Ouldeme, si rallegra di una svolta imminente: il suo pensiero va, infatti, all’arrivo di don Simon Mpeke che si sarebbe affiancato ai Piccoli Fratelli del Vangelo. Aggiunge: “Spero che possa abituarsi e comprendere bene queste popolazioni talmente diverse da quelle del Sud”.

Aveva capito i kirdi

Appoggiato sulla certezza che l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio, Baba Simon pensò che fosse urgente dare ai Kirdi gli strumenti per liberarsi da ogni schiavitù. Liberare i Kirdi delle montagne voleva dire insegnare a uscire dalle loro proprie miserie e accedere alla vita cristiana. A lui competeva dare gli strumenti e chiamare. «Il resto – diceva – ciò che è principale, e cioè la conversione, appartiene a Dio. Il nostro ruolo si riduce a quello di seminatore. Dobbiamo lavorare senza preoccuparci del risultato; il battesimo dipende da una decisione personale per la quale ognuno si impegna sul cammino di una vita nuova. Il fine rimane Dio, il fine non siamo noi. E Dio si incontra nella libertà”.  Per lungo tempo il governo coloniale aveva provato a far scendere i Kirdi dalle montagne e a scolarizzare la popolazione, ma tutti gli sforzi incontrarono sempre una tenace opposizione. L’uomo delle montagne resistette a ogni tentativo che era visto come un’aggressione culturale che non teneva conto dell’identità del popolo. Anche Baba Simon insistette sull’importanza della scuola. Egli capì però, dopo i primi fallimenti, che si trattava di conquistare innanzitutto la fiducia dei Kirdi. Questa è possibile nella conoscenza reciproca, nella presenza continua in mezzo al popolo, laddove esso vive, soffre, ama, lavora, prega. Da qui nacque quella che fu chiamata «la scuola sotto l’albero». Una scuola sotto gli occhi di tutti, nel cuore della vita dei Kirdi.

Lo spirito non muore

Un giorno del 1976, mi sono fermata a casa del vecchio Digdan. Digdan è un pensatore… Insieme ci raccontiamo i ricordi. E arriviamo alla grande disgrazia di tutte le montagne: la morte di Baba Simon. Gli offro la foto-ricordo… Con mia sorpresa la prende con due mani e dice: «Oussé, (“grazie”) Baba, Baba Simon, oussé, oussé!»; gli sorride, scuote la testa, parla rapidamente come in conversazione… Una delle sue donne si avvicina; do anche a lei la foto. La prende in mano e con fervore anche lei dice: «Oussé, Baba Simon» per una decina di volte. Mi azzardo a pensare ad alta voce: «Ed ora dov’è Baba Simon?». Il vecchio Digdan riflette silenzioso e poi: «Ci sono due cose: il corpo di Baba Simon è come il miglio che resta per terra, come l’erba non raccolta, come un albero che cade. Tutto questo diventa terra. Baba diventa terra. E poi c’è lo spirito e lo spirito se ne va a Jigla (Dio) e vive». «Com’è lassù, presso Dio? Jigla nessuno lo conosce, nessuno l’ha visto, nessuno può dire com’è la casa di Dio. Chi dice: “io so!”, è un menzognero… Io ascoltavo in silenzio. «La vita continua: io, Digdan, quando morirò, ho dei figli che hanno dei figli, la mia vita continua». «E Baba che non ha figli?». «Baba è il padre del nostro spirito, e lo spirito non muore mai!». (Jeanne Michel)

 

 

Abbondanza della gioia

Il 17 maggio 2023, Papa Francesco parlando di San Francesco Saverio ha detto: «Quali siano i suoi sentimenti lo capiamo dalle sue lettere: “I pericoli e le sofferenze, accolti volontariamente e unicamente per amore e servizio di Dio nostro Signore, sono tesori ricchi di grandi consolazioni spirituali. Qui in pochi anni si potrebbero perdere gli occhi per le troppe lacrime di gioia!”» (20 gennaio 1548). Anche Il Concilio Vaticano Il parlando della spiritualità del missionario, non tralascia un ingrediente tutt’altro che secondario, rappresentato dalla gioia. Dice infatti che «attraverso la virtù e la fortezza chieste a Dio, il missionario potrà conoscere come sia proprio nella lunga prova della tribolazione e della povertà profonda che risiede l’abbondanza della gioia». (Ad Gentes n.125)

Pare che in questo, i precursori del Concilio siano stati i nostri primi missionari, che agli albori dell’Istituto coniarono una frase divenuta celebre: «Qui si studia, si prega, si ride”.”

Non che si ridesse soltanto, ma insieme allo studio e alla preghiera, l’allegria era davvero un piatto essenziale della vita di comunità. Il Beato Giovanni Mazzucconi, nostro primo martire, lo sottolineò in una delle sue puntigliose annotazioni: «In casa non vi era la fame, ma il piatto principale era l’allegria e la contentezza, la quale in realtà è il dono più grande e più ricco che il Signore possa fare agli uomini sulla terra».

Il dono più grande di Dio, che riassume tutti gli altri, è quello della gioia, non solo gioia umana ma quella di Gesù: «La mia gioia è in voi e gioia piena» (Gv 12,44-50). Il missionario vero, questa gioia l’ha sempre avuta, perfino da donare, trasmettere.

Ricordiamo alcuni missionari del Pime

Padre Frascognia. Così scriveva dall’India: «Sono sempre contento, e più vado avanti più lo sono. Sento che il Cuor di Gesù mi vuol bene; non solo, ma alle volte m’inonda con le sue tenerezze. Potrei narrarti una lunga fila di fatti per dimostrarti come Gesù mi è sempre vicino e mi colma di continui favori». L’ideale missionario è quindi una continua rivelazione del Signore Gesù alla mente e al cuore e che diventa il tutto della vita.

Padre Pietro Manghisi, ucciso in Birmania nel 1953: «Nella sua residenza c’era sempre vita e allegria: essa rigurgitava di ragazzetti orfani, o abbandonati o indesiderati dai genitori. Li aveva raccolti, li allevava, li assisteva maternamente, li educava e istruiva. Sarebbero riusciti maestri o catechisti o comunque avrebbero imparato un mestiere e formato la loro famiglia cristiana».

Egli ce li presenta: «Se sono paffutelli e allegri,godo della loro felicità. Ma se li vedo intirizziti dal freddo o stesi sulla stuoia consumati dalla malaria, allora anch’io sto male!».

Beato Clemente Vismara. «Tutto è bello nella vita del missionario, se c’è la fede e l’amore di Dio. Io ne ho passate tante, ma posso dire di non essere mai stato triste».

Padre Antonio Farronato, fratello di padre Eliodoro ucciso in Birmania nel 1955: «Qui a Monglin io vivo senza casa, mi alzo senza sveglia, prego senza chiesa, vado a caccia senza licenza, sto allegro senza teatro, studio lingue senza fine, non ho giorno senza fastidi, invecchio senza accorgermi, e di certo morrò senza rimorsi, “ché cuor contento il Ciel l’aiuta!”. E voi? e voi? Voi non mai, se non verrete presto a farmi compagnia!».

Padre Cesare Mencattini, martire in Cina nell’anno 1941: «Io sono felice di fare il prete zingaro, senza chiesa, senza canonica, senza beneficio, ma… ricco di anime, cariche di stracci, ma rigenerate alla grazia! I miei cristiani sono poveri… ma veramente buoni! Come mi stanno attenti quando parlo loro della bontà di Dio e della vita eterna».

 

 

Cura per i poveri

Papa Francesco il 17 maggio 2023 ha detto che San Francesco Saverio «Ebbe grande cura per i malati, i poveri e i bambini, in quanto non era un missionario “aristocratico”. ma “andava sempre con i più bisognosi”, “andava proprio alle frontiere dell’assistenza dove è cresciuto in grandezza».

Il Concilio Vaticano II ha detto: La presenza dei cristiani nei gruppi umani deve essere animata da quella carità con la quale Dio ci ha amato: egli vuole appunto che anche noi reciprocamente ci amiamo con la stessa carità. Ed effettivamente la carità cristiana si estende a tutti, senza discriminazioni razziali, sociali o religiose, senza prospettive di guadagno o di gratitudine. Come Dio ci ha amato con amore disinteressato, così anche i fedeli con la loro carità debbono preoccuparsi dell’uomo, amandolo con lo stesso moto con cui Dio ha cercato l’uomo. Come, quindi, Cristo percorreva tutte le città e i villaggi, sanando ogni malattia ed infermità come segno dell’avvento del regno di Dio, così anche la Chiesa attraverso i suoi figli si unisce a tutti gli uomini di qualsiasi condizione, ma soprattutto ai poveri ed ai sofferenti, prodigandosi volentieri per loro. Essa, infatti, condivide le loro gioie ed i loro dolori, conosce le aspirazioni e i problemi della vita, soffre con essi nell’angoscia della morte. A quanti cercano la pace, essa desidera rispondere con il dialogo fraterno, portando loro la pace e la luce che vengono dal Vangelo. (Ad Gentes n. 12)

Il Pime continua a mandare i suoi uomini proprio nelle zone nuove e difficili. Lo leggiamo nella Regola n. 74 di padre Giuseppe Marinoni: «L’ Istituto, fin dal principio (1850), mira ad avere missioni proprie, e tra le popolazioni più derelitte e più bar­bare: perciò richiese come grazia dalla S. Sede le Missioni di Oceania».

Don Cagliaroli, segretario del fondatore del Pime Angelo Ramazzotti, vescovo di Pavia e Patriarca di Venezia, conclude così la sua biografia: «Sulla sua bara si videro lagrime, e s’udirono sospiri, massime di poveri che si accoravano su di lui, il quale, come visibile provvidenza, li aveva sovvenuti in tante volte non che di roba e danari, sì anche di parole buone e paterni conforti».

Siamo alla fine del secolo scorso (1900), in un villaggio della diocesi indiana di Hyderabad. Fra i cristiani di p. Ciccolungo vi erano due famiglie di lebbrosi. Egli le assisteva ed aiutava con grande carità. Un giovane pagano, nello stadio ultimo della malattia, venne un giorno a chiedere l’elemosina al Padre. Il suo stato era veramente compassionevole; aveva piaghe alle mani e ai piedi e la faccia era così sformata da sembrare un mostro. Faceva ribrezzo a tutti; anche i poveri lo rifuggivano. Il buon Padre lo accolse con grande carità, lo fece pulire e gli preparò acqua per un bagno. Commosso a tanta carità, il povero lebbroso chiese di farsi cristiano ed il Padre se lo adottò come figlio. Gli procurò una piccola capanna in un villaggio cristiano ad un miglio dalla nostra casa e vi andava ogni giorno a lavarlo, a portargli cibo e ad istruirlo nella Dottrina Cristiana. Una volta, appunto per vincere la naturale riluttanza, egli volle indossare per una notte la veste del lebbroso… Fu appunto il suo amore per i lebbrosi e la santa follia di volerli servire e salvare che aveva messo nel suo cuore la brama di andare a Molokay, isola dei lebbrosi. Il Signore gradì il suo desiderio e lo rimeritò chiamandolo in Cielo.

Molti sono gli esempi di servizio ai poveri dei nostri missionari, probabilmente rimasti anche sconosciuti.  Certo è che la povertà servita e vissuta è stata sempre e dovunque testimonianza significativa e indimenticabile del Vangelo predicato dal missionario.

 

Gioia missionaria degli anni Sessanta

Ecco la testimonianza di una giovane della  Lega missionaria studenti di Treviso.

È difficile oggi ricordare in maniera coerente e seguendo percorsi logici, gli avvenimenti legati alla nascita e allo sviluppo della Lega Missionaria Studenti nel territorio di Treviso.

Appartengono agli anni lontani della nostra adolescenza-giovinezza, e si localizzano proprio a cavallo degli anni Sessanta, periodo di grande fermento sociale, politico, religioso e scolastico soprattutto nell’ambito giovanile, al quale neppure la nostra tranquilla città poté sottrarsi, fino a modificare quasi inconsciamente la propria statica realtà.

I ricordi ci riportano al vecchio Seminario del Pime di Piazza Rinaldi, fucina di vocazioni missionarie in tanti giovani che coltivavano l’ideale di travalicare le frontiere per realizzare l’avventura cristiana in modi “altri”, accanto ai fratelli più lontani, dal mondo normale spesso sconosciuti oppure dimenticati.

Non fu però un missionario ad accendere in noi la curiosità per quel nuovo movimento studentesco, bensì il Direttore Spirituale del collegio Pio X, Don Antonio Marin che parlò con entusiasmo ai nostri genitori della nascita di un gruppo comunitario interessato a sviluppare i problemi del “terzo mondo”.

Così approdammo ad un mondo nuovo nell’ambito ecclesiale che si basava fondamentalmente su un forte vincolo comunitario, LEGA appunto, tra i membri del movimento, con il fine di vivere la MISSIONE offrendo il “senso dell’esistere”, in grande umiltà e rispetto, anche a fratelli di contesti culturali differenti, nella consapevolezza d’essere tutti figli di un unico Padre.

La specificazione “STUDENTI si riferiva alla composizione dei suoi membri, per lo più giovani, tenuti a sviluppare lo studio non per creare un gruppo elitario, ma, al contrario, per approfondire sempre più le tematiche inerenti alle missioni e allo sviluppo dei popoli.

Ancorate ad un’Azione cattolica che dava segni d’immobilismo, nella quale il dialogo generazionale era sconosciuto, le divisioni tra maschi e femmine ancora fortemente consolidate, la formazione spirituale basata più sul timor di Dio che sull’Amore, la scoperta del Movimento Missionario rappresentò per noi un’esplosione di fermenti.

Sperimentammo che il segno giovanile di quei tempi era porsi in maniera differente di fronte all’ “altro”, senza sentirsi i soli depositari della verità, come spesso avveniva nelle parrocchie a quei tempi, perché ogni “altro” era depositario di verità diverse da riconoscere, approfondire e confrontare

Il porsi in atteggiamento nuovo di fronte a tutti favoriva il dialogo, la conoscenza, il rispetto e quindi l’amore scambievole in un clima di fratellanza universale che dava tensioni nuove, e ben più ampie, alla nostra fede vissuta fino a quel momento in maniera individualistica e abbastanza formale.

Così partecipammo ai gruppi che si ritrovavano al Pime, attorno a padre Silvano Zoccarato, per vivere la nuova esperienza, avvertendo quasi inconsciamente che stavamo diventando partecipi di una travolgente trasformazione.

Eravamo uniti da obiettivi comuni e la conoscenza era lo strumento per indagare il mondo ed imparare ad amarlo proprio nelle sue diversità. E nel gruppo non c’erano più separazioni tra maschi e femmine, tra giovanissimi e più grandi, tra studenti e operai, tra benestanti e poveri, insieme eravamo davvero Lega, pur nel rispetto delle caratteristiche individuali.

Paradossalmente l’aconfessionalità del movimento, la sua apertura a tutti in un nuovo, per quei tempi, spirito d’accoglienza, sostenne la crescita spirituale nella ricerca della propria vocazione passando attraverso la riscoperta di Cristo, un modo incisivo di assimilare la Carità, un senso nuovo di Giustizia verso tutti.

E poi si respirava lo Spirito de Concilio come energia vitale che passava attraverso i nostri cuori portandovi la speranza per un mondo più giusto e più buono di cui ciascuno anche nel suo piccolo, diveniva parte operante fondamentale.

“La grazia del rinnovamento non può avere sviluppo alcuno nelle comunità, se ciascuna di esse non allarga la vasta trama della sua carità sino i confini della terra, dimostrando per quelli che sono lontani la stessa sollecitudine che ha per coloro che sono i suoi propri membri.” (I documenti del Concilio- attività Missionaria della Chiesa – X -37 b )

I nostri punti di riferimento diventarono, tra gli altri, Raoul Follerau del quale condividemmo spiritualmente e propagandammo le campagne contro la lebbra, l’Abbè Pierre che nelle battaglie accanto agli chiffoniers incarnava realmente il Cristo degli ultimi, Nelson Mandela che si batteva contro l’apartheid pagando con il carcere il suo ideale di giustizia e libertà, e, più vicino a noi, Marcello Candia che, abbandonata un’intensa attività industriale ed una vita di benessere, proprio in quegli anni maturò la decisione di farsi missionario laico e si recò a Macapà dove, accanto a Monsignor Pirovano, pose le basi per la costruzione di un grande ospedale.

Nel corso di quegli anni promuovemmo mostre fotografiche itineranti sui problemi della lebbra o della Fame nel mondo e incontri con relatori d’ altri continenti per conoscere i loro paesi dall’interno e dibatterne le problematiche.

Ricordiamo ancora come avvenimento eccezionale nella nostra vita la partecipazione alla Settimana di Studi di Missionologia presso L’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano, alla quale fummo invitate a intervenire per alcuni anni, nel mese di settembre.

Monsignor Squizzato, responsabile del Settore Missionario in Diocesi, contribuiva a finanziare i nostri viaggi e il mondo che si apriva ai nostri occhi, finora limitato ad una visione provincialissima, non aveva più confini.

I relatori che si susseguivano al Convegno erano quanto di più autorevole ci potesse essere allora nella cultura missionaria in Italia e nel mondo: Arcivescovi e politici, giornalisti e presidenti, mediatori interculturali e missionari, e la loro parola diveniva geografia, cultura, conflitto, denuncia, poesia, arte.

E negli intervalli, correvamo a vedere i tesori del Museo Missionario del Pime provenienti da tutto il mondo, oppure la sera, piene d’ emozione, ci dirigevamo all’incontro con l’Abbé Pierre, nostro profeta, in sette su una cinquecento scappottata, all’Auditorio di via Mosé Bianchi, tra migliaia di giovani commossi ed esaltati pronti a bere la linfa vitale delle sue parole.

Tutto questo avveniva quando di sera i giovani, non più in maniera settaria ma integrati trasversalmente, cominciavano a fermarsi a discutere nelle piazze delle città parlando di politica e di fede, scambiandosi dischi e libri, organizzando dibattiti pubblici e cineforum, respirando forse per la prima volta la sensazione di essere parte integrante in una società diversa, che stava sempre più allargando verso nuovi orizzonti i propri confini.

La Lega Missionaria è stata per noi tutto questo.

I principi che ci ha trasmesso sono stati fondamentali nel corso della nostra vita per dare tensione alla nostra Fede e sviluppare sentimenti di accoglienza nei nostri rapporti con gli altri, poiché la nostra Missione l’abbiamo trovata nel nostro “mondo vicino”: nei gruppi amicali, nella scuola, nella famiglia, nel paese.

In questo momento storico particolarmente difficile, nel quale sembrano riemergere le paure verso I’ “altro”, il diverso, e sembra che la gente si rinchiuda sempre più nel

proprio individualismo e che i giovani si pongano in maniera passiva di fronte agli eventi che colpiscono il mondo, ci piace ricordare le parole di Senghor: ” Puoi strappare tutti i fiori ma non puoi impedire che la primavera ritorni.” E’ proprio ora che rinasca una nuova Primavera Missionaria. (Maris Fornaini)