In ginocchio davanti alle bare

Antonio Maria Mira giovedì 2 marzo 2023 scrive su “Avvenire”. «I sindaci crotonesi si sono inginocchiati in preghiera accanto all’arcivescovo Raffaele Panzetta e all’imam Mustafa Achik davanti alle piccole bare bianche nella camera ardente nel palazzetto dello sport Palamilone che ospita le salme degli immigrati. Ringraziano il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella per la sua visita…che ha dato di nuovo dignità al nostro paese».

Tralasciando altri articoli sull’assenza o sul mal comportamento di qualcuno, o che pongono la domanda se si poteva evitare il naufragio, nel giornale ho trovato anche una pagina di Roberto Zanini che nel prezioso libro del gesuita spagnolo Javier Melloni  Il Cristo interiore, trova l’aiuto a capire il senso di mettersi un ginocchio davanti alle bare bianche.

«“Adamo dove sei?” (Gen 2,9). La prima domanda di Dio all’uomo. Una domanda profonda, esistenziale, che paradossalmente rimane senza risposta (…) Ieri come oggi, però, per la maggior parte di noi sembra restare senza risposta: sappiamo davvero dove siamo? Qual è il nostro modo di stare nel mondo e quale il compito nel succedersi delle cose e degli eventi che sono nella nostra vita? Con Gesù, però, le cose cambiano. I discepoli chiedono: “Maestro dove abiti?»” (Gv 1,39), dove stai? Qual è la tua vita, la tua verità nel mondo? (…)

Melloni, attraverso le azioni concrete del Cristo dei Vangeli, prende per mano il lettore e lo aiuta a immergersi nella propria interiorità attraverso quella di Gesù e quindi aprirsi all’azione dello Spirito che illumina. «“La vostra vita è nascosta con Cristo in Dio” – sottolinea citando Col 3,3 -. Lui è noi in pienezza e noi siamo Lui in gestazione fino a che non raggiungiamo l’Essere totale, quando “Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15,28)». Perché «il Cristo nascente dimora in ogni interiorità umana e ci sono semi di divinità ovunque. Gesù di Nazaret è venuto a svegliarci e da allora sta albeggiando, nonostante in nostro intorpidimento».

 

 

I martiri del Pime

Il 24 marzo 2023 ricorre la trentunesima Giornata dei Missionari Martiri.

Dal 1850 a oggi sono 19 i missionari del Pime che hanno conosciuto il martirio.

Nel 1855 in Oceania il beato Giovanni Battista Mazzucconi,

Nel 1900 in Cina durante la rivolta dei Boxer viene ucciso Sant’Alberico Crescitelli. A cavallo tra il 1941 e il 1942, in un contesto storico delicatissimo, sempre in Cina avviene il martirio di padre  Cesare Mencattini, mons. Antonio Barosi, padre Girolamo Lazzaroni, padre Mario Zanardi, padre Bruno Zanella, padre Carlo Osnaghi e padre Emilio Teruzzi.

Tra il 1950 e il 1955 hanno pagato con la vita la loro testimonianza di fede altri cinque missionari del Pime nella turbolenta Birmania (oggi Myanmar): oltre ai beati Mario Vergara e Alfredo Cremonesi, i padri Pietro Galastri, Pietro Manghisi ed Eliodoro Farronato.

Nel 1972 in Bangladesh è stato ucciso padre Angelo Maggioni; nel 1974 a Hong Kong padre Valeriano Fraccaro.

Negli ultimi decenni sono stati uccisi nelle Filippine i padri Tullio Favali (1985), Salvatore Carzedda (1992) e Fausto Tentorio (2011), a conferma che il martirio appartiene alla vicenda missionaria di sempre.
Queste tre ultime uccisioni rispecchiano lo stile di presenza del Pime nel Paese e le modalità di testimonianza missionaria adottata, ieri come oggi: la denuncia dei soprusi dei potenti, la volontà di stabilire un dialogo costante fra cristiani e musulmani e, infine, la lotta in favore dei tribali e dei loro diritti.

Alla morte dei cinque missionari uccisi in Cina nel 1941/42, monsignor Balconi, superiore generale del Pime, scriveva ai membri dell’Istituto: «L’assassinio dei cinque confratelli non solo non ha disanimato nessuno, ma ha rinfrancato chi combatte sul campo, ha entusiasmato chi sospira di raggiungerli, ed ha sollevato un’ondata di fervida simpatia per l’Istituto e le sue missioni, per voi, confratelli carissimi, riguardati come i veri discepoli di Cristo, pronti a dargli anche la massima testimonianza d’amore: il sacrificio della vita. E già questo non sarebbe poco: rinnovarci tutti nel vero spirito missionario».

 

Più responsabilità ai laici

Dal 16 al 18 febbraio, nell’aula nuova del Sinodo, in Vaticano, c’è la presenza di 210 tra presidenti e referenti delle Commissioni episcopali per i laici provenienti da tutto il mondo. È il convegno internazionale di tre giorni “Pastori e fedeli laici chiamati a camminare insieme”. Si chiuderà con l’intervento del Papa. Così il Card. Kevin Farrell pensa il convegno: «Tutti i membri del popolo di Dio, pastori e fedeli laici, condividono a pieno titolo la responsabilità per la vita, la missione, la cura, la gestione e la crescita di questo popolo che Cristo stesso ha suscitato».  «Si sente il bisogno di superare la semplice logica di “sostituzione”, secondo cui per migliorare la situazione della Chiesa, basterebbe semplicemente “sostituire” i chierici con i laici in vari ambiti… e così ogni problema sarebbe risolto». «Serve innanzitutto una “conversione pastorale” da parte dei laici e di coloro che sono ministri ordinati…. Non bisogna ridurre la missione dei laici nella Chiesa a un ruolo o a un coinvolgimento puramente funzionale, ma devono essere veramente parte della missione della Chiesa».

Pensando ai catechisti, sogno che sia conferito loro un “ordine minore” non per una “stelletta” in più, distintiva, ma per un senso di responsabilità, ricevuta come dono di Dio per loro e per la comunità a cui sono inviati. Ho avuto l’incarico e la gioia di formare catechisti nel sud e nel nord del Camerun e in Ciad. Era una scuola seria di famiglie che dedicavano tre anni di formazione alla vita familiare, formazione al lavoro e alla fede. Formazione attenta alla cultura e al contesto dal quale provenivano. Per diventare responsabili e punti di riferimento, animatori della catechesi e della liturgia anche quando il prete poteva arrivare qualche volta l’anno, educatori secondo il Vangelo nelle comunità di appartenenza e per le persone a loro affidate.

Per avere laici impegnati, bisogna dedicarci un po’ di più e tutti insieme ad aiutarli e a pregare per loro.

Sud Sudan. I piccoli sfollati al Papa: vogliamo la pace per poter tornare a casa

Bambini e giovani di altrettanti campi interni hanno raccontato le loro storie a Francesco nel secondo giorno del suo viaggio apostolico in Sud Sudan. Parole di gratitudine e speranza, che non nascondono le numerose difficoltà che loro, come migliaia di altri coetanei, vivono quotidianamente: mancanza di spazio, carenza di istruzione, solitudine, sogni di un futuro migliore

(Andrea De Angelis – Città del Vaticano): Johnson non ha abbastanza spazio per giocare a calcio, ma neanche una scuola. Il suo indirizzo è B2, rispettivamente il blocco e il settore del sito per la protezione di civili in cui vive. Joseph ha 16 anni, otto dei quali trascorsi nel campo. “Se ci fosse stata la pace – dice a fatica, emozionato e commosso – mi sarei goduto l’infanzia”. Rebecca, come gli altri, è “molto felice” di avere davanti a sé il Papa, qui “nonostante il suo ginocchio dolorante”. Gratitudine, speranza, dolore, preghiera. Questo e molto altro esprimono le voci dei giovani che il Papa ha incontrato al campo sfollati interni di Giuba, le cui testimonianze hanno preceduto il suo intervento.

Siamo qui grazie agli aiuti umanitari

Sedici anni all’anagrafe, la metà dei quali trascorsi nel campo della città di Bentiu. La storia di Joseph è quella di un ragazzo chiamato a crescere troppo presto e oggi consapevole del dramma che sta vivendo. Il suo pensiero è per il futuro, personale sì, “ma anche degli altri bambini”, perché chi ha conosciuto la fame, la paura di morire desidera che simili pagine non si scrivano più. “Perché soffriamo nel campo per gli sfollati? A causa – dice – dei conflitti in corso nel nostro Paese”. La sua analisi è lucida, sa bene che la sopravvivenza non era scontata. “Io, i miei genitori, insieme ad altre famiglie, siamo qui grazie agli aiuti umanitari”, ma “se ci fosse stata la pace sarei rimasto nella mia casa d’origine”. Joseph chiede ai leader religiosi di continuare a pregare per “una pace definitiva”, infine lancia un accorato appello ai leader del suo Paese: “Portino amore, pace, unità e prosperità”.

Benedetto XVI e l’Africa

Chiesa in Africa, famiglia di Dio, molteplicità delle culture e dei linguaggi

Omelia di domenica 25 ottobre 2009 come conclusione della VIII ASSEMBLEA SPECIALE PER L’AFRICA

“Coraggio, alzati!”. Così quest’oggi il Signore della vita e della speranza si rivolge alla Chiesa e alle popolazioni africane, al termine di queste settimane di riflessione sinodale. Alzati, Chiesa in Africa, famiglia di Dio, perché ti chiama il Padre celeste che i tuoi antenati invocavano come Creatore, prima di conoscerne la vicinanza misericordiosa, rivelatasi nel suo Figlio unigenito, Gesù Cristo. Intraprendi il cammino di una nuova evangelizzazione con il coraggio che proviene dallo Spirito Santo. L’urgente azione evangelizzatrice, di cui molto si è parlato in questi giorni, comporta anche un appello pressante alla riconciliazione, condizione indispensabile per instaurare in Africa rapporti di giustizia tra gli uomini e per costruire una pace equa e duratura nel rispetto di ogni individuo e di ogni popolo; una pace che ha bisogno e si apre all’apporto di tutte le persone di buona volontà al di là delle rispettive appartenenze religiose, etniche, linguistiche, culturali e sociali. In tale impegnativa missione tu, Chiesa pellegrina nell’Africa del terzo millennio, non sei sola. Ti è vicina con la preghiera e la solidarietà fattiva tutta la Chiesa cattolica, e dal Cielo ti accompagnano i santi e le sante africani, che, con la vita talora sino al martirio, hanno testimoniato piena fedeltà a Cristo.

Coraggio! Alzati, Continente africano, terra che ha accolto il Salvatore del mondo quando da bambino dovette rifugiarsi con Giuseppe e Maria in Egitto per aver salva la vita dalla persecuzione del re Erode. Accogli con rinnovato entusiasmo l’annuncio del Vangelo perché il volto di Cristo possa illuminare con il suo splendore la molteplicità delle culture e dei linguaggi delle tue popolazioni. Mentre offre il pane della Parola e dell’Eucaristia, la Chiesa si impegna anche ad operare, con ogni mezzo disponibile, perché a nessun africano manchi il pane quotidiano. Per questo, insieme all’opera di primaria urgenza dell’evangelizzazione, i cristiani sono attivi negli interve

Benedetto XVI missionario

La mattina del 20 aprile 2005, al termine della prima Concelebrazione Eucaristica da Pontefice, Benedetto XVI ai Cardinali riuniti in Conclave ha letto un Messaggio in lingua latina dove ha illustrato il programma del pontificato, sottolineando tra l’altro l’importanza dell’unità del Collegio apostolico, che «è a servizio della Chiesa e dell’unità nella fede, dalla quale dipende in notevole misura l’efficacia dell’azione evangelizzatrice nel mondo contemporaneo. Su questo sentiero, pertanto, sul quale hanno avanzato i miei venerati Predecessori, intendo proseguire anch’io, unicamente preoccupato di proclamare al mondo intero la presenza viva di Cristo… Nell’intraprendere il suo ministero, il nuovo Papa sa che suo compito è di far risplendere davanti agli uomini e alle donne di oggi la luce di Cristo: non la propria luce, ma quella di Cristo».

Nella Messa per l’inizio del suo Ministero Petrino, celebrata in piazza San Pietro il 24 aprile 2005, Benedetto XVI ricordò che «anche oggi viene detto alla Chiesa e ai successori degli apostoli di prendere il largo nel mare della storia e di gettare le reti, per conquistare gli uomini al Vangelo – a Dio, a Cristo, alla vera vita». «Noi esistiamo per mostrare Dio agli uomini. E solo laddove si vede Dio, comincia veramente la vita. Solo quando incontriamo in Cristo il Dio vivente, noi conosciamo che cosa è la vita… Non vi è niente di più bello che essere raggiunti, sorpresi dal Vangelo, da Cristo. Non vi è niente di più bello che conoscere Lui e comunicare agli altri l’amicizia con lui».

Il giorno seguente, 25 aprile 2005, Benedetto XVI si è recato nella Basilica di San Paolo sulla via Ostiense, al sepolcro dell’Apostolo Paolo, “alle radici della missione”. Benedetto XVI ha ricordato l’esempio del suo «amato e venerato predecessore Giovanni Paolo II, un Papa missionario, la cui attività così intensa, testimoniata da oltre cento viaggi apostolici oltre i confini d’Italia, è davvero inimitabile», ed ha chiesto al Signore di alimentare anche in Lui un simile amore, «perché non mi dia pace di fronte alle urgenze dell’annuncio evangelico nel mondo di oggi». Dopo aver citato il Decreto “Ad gentes” che il Concilio Ecumenico Vaticano II ha dedicato all’attività missionaria, il Papa ha ribadito: «All’inizio del terzo millennio, la Chiesa sente con rinnovata vivezza che il mandato missionario di Cristo è più che mai attuale. Il Grande Giubileo del Duemila l’ha condotta a ‘ripartire da Cristo’, contemplato nella preghiera, perché la luce della sua verità sia irradiata a tutti gli uomini, anzitutto con la testimonianza della santità».

(tratti del magistero missionario del santo padre benedetto xvi a cura di Stefano Lodigiani)

 

Amore dell’altro, solidarietà umana

In viaggio verso a Gafsa per visitare il cristiano T., padre Anand mi parlava di una donna che cresciuta con la famiglia accanto alla chiesa dove c’erano dei cristiani e un missionario, trovando ora la chiesa abbandonata e in rovina, si è data da fare per ripararla. Questa notizia di una persona che resta con un ricordo vivo e che si mantiene aperta e affezionata a dei cristiani, mi ha risvegliato la memoria di quello che ho vissuto in Algeria e riacceso la domanda che mi resta da tempo: «La relazione di stima e di affetto che alcuni musulmani (o di altre religioni) iniziano e mantengono viva con noi cristiani, che cos’è? Semplice ricordo o qualcosa di più vitale? Ieri ho assistito alla gioia di alcuni abitanti del deserto quando hanno rivisto l’infermiera che li aveva seguiti per anni. Non è solo un ricordo gioioso. Alcuni coi quali ho vissuto dieci anni, mi scrivono chiamandomi amico, padre…  che cosa sentono? E quelli di Touggourt (Algeria) che chiamavano mamma la suora che li aveva aiutati a nascere? Partita per il Paradiso pochi giorni fa, un professore mi scrive e dice di lei Paix à sa belle âme. L’anziano di Touggourt che col fratello aveva nel 1939 aiutato la Piccola Sorella Magdeleine a stabilirsi in una vecchia casa, mi diceva d’essere fondatore con lei della fraternità di Touggourt e parlava di Amicizia divina.

Mons Claude Rault, vescovo emerito del deserto algerino, comunicando la notizia della morte di Rania Boussaid, una giovane donna musulmana di 32 anni trasportata dall’arrivo improvviso dell’acqua di un oued a Tamanrasset, la definiva stretta collaboratrice del Piccolo Fratello Antonio Chatelard, negli studi su Charles de Foucauld. Accompagnava i gruppi di turisti soprattutto a visitare il Bordj dove era stato ucciso fratel Charles. Era presente a Roma alla beatificazione e diede una lunga testimonianza dicendo: «Cammino ancora sugli stessi passi di fratel Charles e trovo la forza di vivere il mio cammino senza paura». Il vescovo aggiunge: «Molto vicina alla comunità cristiana è rimasta sé stessa: donna musulmana di grande fede e ardore di vita. Rania appartiene a Dio. Ha raggiunto tutti coloro che, come Maria, hanno detto il loro “Sì”, appartenenti a qualsiasi credo».

Alla morte del vescovo Pierre Claverie, ucciso assieme al suo autista, Abderrahman disse: «Pierre Claverie mi ha spinto su una nuova strada. La mia visione dell’islam è diventata più critica, più antropologica. La mia fede si è sviluppata in favore della riconciliazione con l’altro».

E Oum el Kheir:  «Claverie mi ha imparato ad amare l’islam, mi ha insegnato ad essere musulmana, amica dei cristiani d’Algeria. Ho imparato che l’amicizia è anzitutto fede in Dio, amore dell’altro, solidarietà umana».

Vivendo accanto a persone di religione differente, avviene una conversione reciproca: amore dell’altro, solidarietà umana.

Con gli auguri di un anno benedetto dal Signore

 

In visita…

Preparandomi a venire in Tunisia non pensavo di trovarmi in situazioni e in momenti non solo belli, ma soprattutto di grande interesse dal punto di vista umano e missionario. In realtà l’esperienza dei dieci anni in Algeria mi permette di capire meglio. Oggi tre momenti…

Santa Messa con T., l’unico cristiano della zona. Con me e padre Anand, c’è un medico italiano e la signora francese in visita nella città dove ha vissuto non 30 anni come avevo scritto in un’altra cartolina, ma 50 di servizio da infermiera. Troviamo nel salottino della casa di T. la tavola già preparata da sua moglie musulmana che poi è rimasta in cucina. Vi è tutto il necessario per celebrare la Messa: tovaglia con sopra pane arabo, calice col vino, la croce, un rosario, alcune immagini e la bella candela. Quella era la nostra cattedrale e ho ricordato che il vescovo aveva detto un giorno a T. che in quel luogo lui era la Chiesa. T. è molto sofferente, ma ci ha ripetuto la sua gioia di vederci in preghiera attorno a lui per il suo Santo Natale. Ho colto la bella occasione di dargli il mio libro in francese su Charles de Foucauld, mon saint en chemin. Mi ha promesso che mi scriverà una testimonianza della sua vita.

Visita a un’ammalata. Rientriamo a Tozeur per un altro percorso in mezzo a palmeti e su strade poco belle. Padre Anand e l’infermiera a un certo momento nuovo devono fermarsi a chiedere come continuare. Salta fuori da una baracca una donna che riconosce Leila, l’infermiera, e immaginatevi la gioia di tutt’e due. Subito un giovane si mette in moto per accompagnarci verso la casa dell’ammalata che visitiamo e poi ci fermiamo a parlare col padre e vedere come una famiglia vive sola nel deserto e tra palmeti. Dobbiamo restare un po’per gustare il meglio che la sorella ha preparato e vi assicuro che è straordinario. Cose, cibi, luoghi, persone… tutto merita un libro. Momenti che solo missionari in viaggio per incontrare e stare con la gente, assieme a un’infermiera così, possono vivere e sentire.

Ha voluto riparare la chiesa. Durante i duecento chilometri percorsi in macchina durante la giornata nel deserto, pongo tante domande a padre Anand e mi trovo in situazione favorevole, avendo lui già vissuto cinque anni in questi luoghi. A un certo punto, mi parla di una donna che cresciuta con la famiglia accanto a un missionario e vedendo i cristiani vicini alla chiesa, trovandola ora abbandonata, si è data da fare per ripararla. La notizia mi interessa e ne scriverò qualcosa nella prossima cartolina.

 

Auguri di pace per il mondo

Non è la prima volta che la Russia e i suoi satelliti soffrono situazioni disastrose. Ricordiamo quanto ha vissuto nei secoli 12°, 13°, 14°. I Tartari hanno invaso il paese e distrutto tutto, chiese comprese. Secoli di dominazione, di guerre, di carestie, di malattie di ogni genere. Gli animi esacerbati, divisi, tesi, impazziti. Ma ecco che in una piccola chiesa, distante 60 km da Mosca, nasce un movimento spirituale attorno al monaco Sergio. La spiritualità della S.ta Trinità che nel 1415 avrà il massimo splendore quando Rublev creerà l’icona della Trinità.

Di fronte a un mondo di cuori spezzati, divisi, senza speranza, ecco apparire i volti di un Dio che vive nella pace, nella serenità, nella comunione intensa, nella gioia profonda. In questi volti le persone si sono viste, rispecchiate. Hanno sentito i cuori placarsi, hanno intravisto un mondo nuovo, sentito una energia, una volontà che li incoraggiava. È in Dio che l’uomo ha visto la sua nobiltà. È Dio stesso che mostrandosi attraverso la predicazione, la preghiera e il linguaggio della icona, ha condotto la Russia a ritrovare il suo cammino.

Amici, in questo Natale sentiamoci più uniti in preghiera perché Dio trasformi i nostri volti e di tante persone dei cinque continenti in volti del Dio della pace. Gli auguri e le preghiere che facciamo, diventino volontà di vero cambiamento. È in Dio della pace che l’uomo vede la sua nobiltà.

Don Giuliano Brugnotto, un vescovo al largo

Nella nomina di vescovo di Vicenza, don Giuliano si sente mandato “al largo”, non vuole essere chiamato eccellenza e rinuncia ad avere un proprio stemma. Nell’intervista a Lauro Paoletto, dichiara la sua passione per le missioni: «Questa passione risale ai tempi della mia ordinazione. Allora chiesi che non ci fossero regali particolari se non una raccolta di offerte per una missione in Burundi dove suor Maria Vittoria Cenedese della mia parrocchia di origine (Mignagola) lavorava da molti anni. Poi quando sono stato a Roma, con studenti di varie nazioni ho conosciuto nuove realtà ecclesiali e nuove culture. Successivamente, diventato educatore, ho vissuto con entusiasmo l’accompagnamento di una classe a Manaus in Amazzonia e poi in altre missioni. Anche nella facoltà di diritto canonico a Venezia la presenza di molti sacerdoti stranieri mi ha permesso di entrare in un contesto culturale e pastorale differente e capire il loro punto di vista. Questo mi ha aperto gli orizzonti e costretto a essere più elastico mentalmente. La missione è una dimensione che è entrata sempre di più nella mia vita e che spero di poter continuare a coltivare a Vicenza. Siamo in un tempo in cui per missione non si intende più solo le “terre di missione”, ma è una dimensione che ci costituisce qui, nel nostro vivere quotidiano».

Scelte di sobrietà: rinuncia ad avere un proprio stemma

Giovanni XXXIII al Concilio Vat. II disse: «La Chiesa si presenta… come Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri». Nacque allora un gruppo di vescovi (tra loro Mons. Mercier di Laghouat Algeria e Lercaro di Bologna) che ispirandosi in particolare a Charles de Foucauld si interessarono al tema della “Chiesa dei poveri” e chiesero al teologo Congar uno studio storico sui titoli e gli onori della Chiesa. Congar andò oltre titoli e onori e disse: «I fari che la mano di Dio ha acceso sulla soglia del secolo atomico si chiamano Teresa di Lisieux e Charles de Foucauld». Auguriamo al vescovo Luciano di lasciarsi accompagnare “al largo”… da santa Teresa, patrona delle missioni e da San Charles de Foucauld, il fratello universale.